VENEZIA – “Considero questo mio lavoro un manifesto sugli ideali libertari, di cui oggi si sente ormai parlare troppo poco”. Sabina Guzzanti definisce così il suo Spin Time. Che fatica la democrazia!, film documentario prodotto da Secol Superbo e Sciocco in collaborazione con Frame by Frame, presentato alle Notti Veneziane/Giornate degli Autori e in uscita nella sale dal 16 settembre con Wanted Cinema.
Il protagonista del docufilm è un palazzo occupato di Roma, nel quartiere San Giovanni, dove vivono 180 famiglie, 400 persone di 25 nazionalità e culture diverse. Nell’edificio di 17mila metri quadri è in atto un esperimento politico e sociale, alla ricerca di un diritto di cultura, formazione e dignità. In questo spaccato umano, che si fonda su un modello democratico di integrazione, accoglienza, solidarietà, dialogo e uguaglianza, si intrecciano due plot: delle votazioni che vengono continuamente rimandate e uno spettacolo teatrale e sociale con regole e finalità del tutto particolari. Le storie interagiscono fra loro in modo inaspettato anche per l’autrice, avvicinandola e avvicinando noi spettatori alla conoscenza di una realtà lontana ma anche familiare.
Qual è stata la scintilla che l’ha spinta a realizzare il film?
Nel 2019, quando ho saputo che era stata staccata la luce in questo edificio, ho portato la mia solidarietà alle famiglie, insieme ad altri artisti. Nei primi due piani di quel palazzo trova spazio uno dei poli culturali più importanti di Roma, anche con tantissime offerte tra le più all’avanguardia della Capitale. Lì ho conosciuto il lavoro di Christina Zoniou, che fa teatro sociale, il teatro dell’oppresso. 48 ore dopo avevo già la telecamera in mano. Se non l’avessi fatto subito il film, non l’avrei fatto più. Miracolosamente in quei giorni è arrivato anche il gesto di disobbedienza civile dell’Elemosiniere del Papa (il cardinale Konrad Kraiewski, ndr), che ha riattaccato personalmente la luce, macchiandosi di un reato solo per salvare la vita di tutte quelle persone e attirando critiche pesanti.
All’inizio del documentario lei dice che cercava ‘solo un’ispirazione o forse un po’ di fiducia nel genere umano’. L’ha trovata?
Non dobbiamo farci troppe illusioni. È dura ed è normale che sia così. Ci mette in difficoltà il miraggio che le cose debbano essere semplici nel confronto con gli altri. È faticoso, provi rabbia e delusione, puoi aver voglia di mandare tutto a quel Paese, perché magari a volte dai tanto di te e non ricevi considerazione. Io sono felice di aver realizzato un progetto politico nel senso buono del termine. Sono spinta sempre da uno spirito libertario.
Lei e la troupe in che modo eravate visti dagli abitanti del palazzo?
Come degli intrusi. Non è stato semplice entrare in quel loro mondo. È normale che in luogo come quello non ci sia sempre un clima tranquillo. È faticoso avere turni, condividere spazi, e tutto ciò porta anche a degli attriti. E la nostra presenza può aver in qualche modo fomentato alcune situazioni.Lo spettacolo teatrale ha però smussato una serie di conflitti.
È vero, come si dice nel documentario, che ‘con il teatro possiamo trovare parti nascoste di noi’?
È stata una chiave di comunicazione con gli abitanti. Mi sono divertita tantissimo a interpretare il ruolo dell’oppressore e improvvisarlo. È servito concretamente a stabilire con gli occupanti un rapporto vero di condivisione. Recitare insieme ha cambiato anche i rapporti tra di loro. Non c’erano più divisioni, erano tutti orgogliosi di essere lì. Il teatro dell’oppresso mostra come non ci siano né buoni o cattivi, ma è un modo che può spingere al dialogo e riesce a coinvolgere. Dovrebbero provare a farlo anche i politici.
Si parla spesso dell’importanza della Cultura. Cos’è per lei?
Qualcosa che ci fa evolvere, riflettere, ci metta in grado di dialogare con le persone, deve creare un senso di appartenenza, che faccia porre domande.
Gli abitanti del palazzo hanno visto già il film?
Sì, e quando si sono rivisti si sono ricordati di cosa stavano costruendo culturalmente. Era prima della pandemia e il film li ha fatti rinvigorire.
Lei, quando trova un’idea che l’appassiona, prende la sua telecamera e la racconta in immagini, anche tra le mille difficoltà di ottenere dei finanziatori. Si sente un po’ un outsider del cinema?
Se avessi un produttore, forse farei più film. Mi pesa realizzarne meno di quelli che vorrei. Purtroppo, vale per tante persone di talento in Italia. O fai dei compromessi che snaturano il tuo lavoro o segui una tua strada. Io ogni volta che riesco a fare un film sono contenta di ciò che ho fatto.
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