Le registe del cinema italiano guardano alla società che cambia. Si fanno carico dello sguardo strabico sull’oggi, coniugano la Storia alle storie. E affidano ai rapporti privati, all’indagine sui sentimenti, una lettura del presente che va ben al di là della commedia sentimentale. Anche il nuovo film di Rosalia Polizzi, regista e sceneggiatrice italo-argentina che aveva esordito nel 1994 con Anni ribelli obbedisce al diktat interiore del “fare il punto”, dell’indagine ragionata e “sentita”. Si intitola Riconciliati, è al FilmFest nella sezione Panorama e s’inoltra nello spinoso territorio del terrorismo raccontando di Roberto, ex brigatista che esce dal carcere dopo vent’anni, deciso a scoprire chi, fra i suoi intimi amici di quegli anni, lo ha tradito e consegnato alla polizia.
Un tema difficile e ancora molto attuale. Da cosa nasce l’idea?
Volevo parlare di questo fine secolo, o meglio, dell’inizio di nuovo secolo attraverso le parole di quanti hanno creduto alla rivoluzione della nostra società, che sono appartenuti alla sinistra in tutte le sue manifestazioni, sino alla degenerazione del terrorismo. Ho svolto molte inchieste e programmi televisivi sull’argomento: mi sono occupata a lungo dei desaparecidos, ho intervistato Silvia Baraldini, ho conosciuto molti terroristi, più o meno riconciliati. E’ un tema che mi porto dentro da oltre un anno che alla fine ha preso corpo nella scrittura e nelle immagini di questo film.
Un argomento a cui la stessa Germania è particolarmente attenta: felice di essere al festival?
Assolutamente sì. Il mio film, tra l’altro l’unico ad essere stato selezionato mentre era ancora il lavorazione, è sicuramente adatto a Berlino e non a Cannes. Voglio dire che certi paesi, penso alla Germania, alla Spagna e alla Gran Bretagna, meglio di altri possono comprendere fenomeni dilanianti come il terrorismo contemporaneo. E le recenti dichiarazioni di Fischer hanno riportato d’attualità temi come questo anche in Germania.
Che cosa rappresentava Roberto il terrorista in incognita negli anni Settanta e cosa oggi, ex detenuto in cerca di verità e forse di vendetta?
Roberto era un tempo la classica “scheggia impazzita”, quello che non aveva lasciato trapelare nulla sino all’ultimo, quello che ha messo in pratica l’aberrazione dell’assassinio di cui con leggerezza molti si riempivano la bocca. Nel 2000, Roberto che torna non è più un elemento di disturbo per la società politica, ma un corpo rifiutato che turba i singoli individui. I suoi amici, o ex amici, inclusa Malèna, l’esule argentina che lo amava, sono inquieti, provocati, turbati da questo personaggio carico di rimpianti e di rancore per la sua vita perduta che fatalmente corre e li trascina verso la catarsi.
Nel film assistiamo anche alla compresenza di due generazioni, quella dei quarantenni e quella dei loro figli: in che rapporti sono, in cosa sono diversi?
I ragazzi del film sono giovani innocenti e un po’ nomadi che si portano oscuramente dentro la solitudine e l’abbandono di genitori ancora immaturi. Forse la cosa che più li divide è la diversità dei valori, il fatto di non credere più a degli ideali, l’aver scelto, nel migliore dei casi, il volontariato al posto della militanza, che è poi l’opzione politica del nostro presente. E ciò che li unisce, questi padri e figli, è il disorientamento.
Tutto si svolge nell’arco di un weekend, dal sabato al lunedì, con un ritmo molto eduardiano… in più si parla di di catarsi e dal teatro arrivano molti degli attori, da Castellano a Pitagora e Lojodice.
A loro sono molto grata non solo per la bravura, ma proprio per la collaborazione, la serietà e l’amore con cui si sono dedicati al progetto. Tutti si sono calati nell’idea di ritornare ad un periodo importante della nostra Storia e storia. Ma senza paternalismi, senza flashback. Cercando di capire.
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