Sullo schermo scorrono le immagini degli scontri di piazza, dei cortei femministi, Giorgiana Masi e i suoi compagni, le molotov e gli striscioni.
Di fronte uomini e donne di cinquant’anni che si ritrovano a fare i conti con il passato.
Sono i protagonisti di Riconciliati (guarda il trailer e il making of), secondo lungometraggio di Rosalia Polizzi, filmaker italo-argentina, nata a Buenos Aires da padre siciliano e madre spagnola, in Italia dal 1961 (leggi le anticipazioni di tamtam).
Alle spalle ha un’intensa attività come documentarista e autrice di inchieste sui desaparecidos, le donne, l’emigrazione.
Prodotto da Gherardo Pagliei per la Tecnovisual con un budget di 3 miliardi e 600 milioni e presentato alla Berlinale edizione 2001, sarà nelle sale dal 15 marzo.
Lo interpretano tra gli altri da Beatriz Spelzini, Emilio Bonucci, Franco Castellano, Paola Pitagora e racconta l’incontro, dopo vent’anni, di un gruppo di amici che hanno vissuto la grande utopia degli anni Settanta.
L’occasione è offerta dall’uscita dal carcere del dissociato Roberto Ferro che vuole scoprire chi tra i compagni di un tempo lo ha tradito svelando il suo indirizzo segreto alla polizia.
Che cosa l’ha spinta a girare un film sulla generazione degli anni Settanta?
L’urgenza comunicativa, fare un film universale che racconta una esperienza comune a diversi paesi: negli anni Settanta c’era la stessa voglia di cambiamento in parti del mondo lontane. È una sorta di bilancio del secolo appena concluso, registra un cambiamento antropologico epocale: quello di persone che hanno subìto una sconfitta storica, non si riconoscono nel proprio passato e oggi non sanno che fare di se stessi. Ognuno dei personaggi ha le sue ragioni ma io non ne abbraccio nessuna. Però tuttora sono convinta che solo la strada del socialismo, anche se bisogna vedere quale, è quella giusta ottenere giustizia per tutta l’umanità. Non è affatto detto che la globalizzazione sia eterna. La struttura drammaturgica del film viene dalla mia esperienza teatrale: si svolge a Roma in tre giorni che corrispondono a tre atti: la notizia della scarcerazione di Roberto, il suo arrivo e, infine, l’epilogo.
Si vedono anche i figli di quella generazione…
I figli portano nel loro DNA ciò che i genitori hanno vissuto. Nel week end mostrato nel film stanno per conto loro, non partecipano direttamente al travaglio dei padri e delle madri. Realizzare una pellicola sui giovani è il sogno di tutti i registi italiani ma io preferisco raccontare ciò che conosco meglio.
Il titolo del suo film richiama quello di una pellicola di Jean-Marie Straub del 1965, “Non riconciliati”. E’ tra i suoi riferimenti cinematografici?
Si. Straub è un autore inimitabile. Ma ora guardo con grande interesse soprattutto al cinema francese di Laurent Cantet e Robert Guédiguian. Il suo La ville est tranquille è un film durissimo: alla fine non piangi ma esci dalla sala col cuore spezzato. Poi ho un grande rispetto per Ken Loach e Bertrand Tavernier. Questo è il cinema che mi porto dentro.
In “Riconciliati” c’è una battuta che dice: “Ero comunista e ora ballo!”. È sua?
No, è una citazione provocatoria ripresa da Odissea nuda, un film del 1962 di Franco Rosso. Riconciliati è dedicato a lui: l’ho conosciuto bene quando ero la sua aiuto regista. All’epoca quella frase scatenò le ire della stampa di sinistra che lo accusò di qualunquismo. Ora suona molto meno offensiva.
Qual è il legame con “Anni Ribelli”, il suo primo lungometraggio del 1994?
E’ il filo rosso che unisce l’Italia e l’Argentina che solo chi ha vissuto in entrambi i paesi conosce bene. L’Italia esercita una fortissima egemonia culturale sull’Argentina: è il paese più amato. Nel mio prossimo film invece rinuncerò ad esplorare ciò che li accomuna. Sarà una co-produzione dell’italiana Buskin Film e di una compagnia ungherese, sarà ambientata in una Budapest tecnologica e interpretata da un cast italiano.
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