CANNES – Il terrore continua e assume altre, sorprendenti forme. Trentadue anni dopo l’uscita di Shining, il capolavoro horror diretto da Stanley Kubrick a partire dall’omonimo romanzo di Stephen King, i simboli, le “allucinazioni”, le suggestioni labirintiche descritte dal regista continuano a turbare le notti di generazioni di spettatori. Ora, poi, c’è un motivo in più, grazie a Room 237 di Rodney Ascher, cineasta statunitense che ha esplorato le numerose teorie fiorite intorno al film della “luccicanza” con un documentario selezionato prima al Sundance e ora alla Quinzaine des Réalisateurs. “Avevo 10 anni quando ho visto Shining in sala per la prima volta. Sono scappato dal cinema dopo 20 minuti, ero terrorizzato. Da allora ho rivisto il film decine di volte e l’ossessione continua a essere potente”.
Come ogni opera del “maniacale” Stanley Kubrick, Shining è un film limato in ogni minimo dettaglio. Non è un caso se il regista di 2001 Odissea nello spazio è famoso per la sua pignoleria e per la sua ossessione perfezionistica, oltre che per la sua estrema riservatezza. E allora perché in Shining si contano decine di dettagli che sembrano errori di continuity ma, chiaramente, non possono esserlo? Perché il piccolo Danny corre con il suo triciclo lungo i corridoi dell’Overlook Hotel facendo percorsi impossibili, in cui si ribaltano prospettive e cambiano livelli nello spazio di un piano sequenza? I manifesti appesi alle pareti e gli elementi scelti come oggetti di scena possono essere casuali? I numerosi intervistati da Rodney Ascher sostengono di no: dal giornalista al professore, dal musicista, all’artista, all’erudito “cacciatore di cospirazioni” vengono fuori teorie sorprendenti che si sostengono sulle immagini subliminali inserite da Kubrick in Shining. “E’ un film sul genocidio degli indiani-americani”, dice convinto Bill Blakemore, reporter che ha messo in fila tutti gli elementi che avvalorano la sua versione. Come le latte di cibo ben ordinate nella cella frigorifera in cui Jack Nicholson si trova chiuso, e che sull’etichetta hanno un indiano e la scritta “Calumet”. “E’ un’opera sull’Olocausto”, sostiene un altro intervistato appoggiandosi al numero 42 che ricorre insistentemente nel film e alla macchina da scrivere (tedesca) usata da Nicholson. Oppure Shining è un film sulla numerologia? O sulle teorie di Marshall McLuhan? O l’ammissione di Kubrick di aver diretto il falso allunaggio dell’Apollo 11? “Shining lascia un segno permanente negli spettatori insiste il regista Rodney Ascher Quando ho visto sul web un articolo che snocciolava una strana teoria sul film mi è venuta l’idea di questo documentario, e ora ogni nuova teoria mi fa vedere il film con nuovi occhi. E’ come se avessi avuto accesso a una sorta di conoscenza proibita”. Solo Kubrick, forse, poteva produrre un film così complesso, che peraltro si è sempre rifiutato di “spiegare”, cosa che vale per tutti i suoi altri titoli. “C’è solo un altro regista come lui, cioè David Lynch dice Ascher Che semina elementi misteriosi nelle sue opere e non ha nessuna intenzione di offrirne un’interpretazione chiara. Perché, proprio come Kubrick, sostiene che i film devono parlare da soli”.
Room 237 è anch’esso, in qualche modo, un “documentario dell’orrore”, che lascia uno strisciante senso di inquietudine con la sua costruzione visiva che utilizza tra l’altro molte sequenze della filmografia kubrickiana (“c’è stato un lungo lavoro con gli avvocati per ottenerne i diritti”, ha spiegato Ascher). E visto che il regista di Arancia meccanica aveva una vera e propria ossessione per il controllo, che in buona parte è stata ereditata dai suoi familiari, è lecito chiedere se Room 237 sia stato realizzato con l’aiuto dei familiari del cineasta. Ma la risposta è no, “perché volevamo essere totalmente indipendenti”. Ora, dopo il Sundance e la Quinzaine, il documentario aspetta di seminare ansie sottili grazie a qualche distribuzione europea o alla selezione in nuovi festival in giro per il mondo.
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