Ci sono tanti elementi autobiografici nell’esordio di Ron Morales, giovane filmmaker filippino che proprio per il film Santa Mesa ha già vinto tre importanti riconoscimenti ai Festival del cinema asiatico di S.Francisco, Premio speciale della giuria, Filadelfia, Miglior pellicola, e S.Diego, Miglior storia drammatica. In concorso nella sezione Alice nella città , la pellicola racconta la storia di un dodicenne costretto a trasferirsi dalla nonna a Manila quando sua madre muore improvvisamente. Arrivato dagli Usa, e impossibilitato ad intendersi con i parenti che parlano una lingua differente, il ragazzino passa molto tempo in strada dove s’imbatterà in una gang e in un ex fotografo, un uomo che diventerà per lui un padre putativo. Morales non è orfano, ma è di origine filippina e come il protagonista non parla la lingua madre dei suoi genitori. Insegue il sogno di diventare un regista da quando vide E.T. da bimbo e per la sua prima opera ha scelto una storia che non s’ispira al fantastico ma che punta ai buoni sentimenti. Appassionato di fotografia e incuriosito da differenze e incoerenze tra la cultura asiatica e quella americana, Morales dice di aver raccontato la storia di Hector per quelli come lui, appartenenti ad una prima generazione di figli di immigrati nati negli Usa: “Facendo ricerche per un reportage fotografico ho capito che alcuni uomini sono destinati ad avere un’etichetta addosso per la vita. In America sarò sempre un filippino nonostante sia nato nel New Jersey, mentre per i filippini sono e resterò un americano. Credo di essere qualcosa che sta a metà e Santa Mesa spero lo dimostri” – ha detto l’autore a CinecittàNews.
Come è nata l’idea del film?
Facendo delle ricerche per un servizio fotografico nelle Filippine a Bataan dov’è nata mia madre. Ho intervistato alcuni parenti che non sapevo nemmeno di avere e che non parlano neanche la mia stessa lingua. Lì ho capito che stavo ritrovando una parte delle mie origini.
Quindi ora si sente più americano o asiatico?
Ho realizzato che la confusione dentro di me nasceva dall’idea di appartenere ad una sola eredità culturale o per lo meno ad una per volta, a seconda del luogo in cui mi trovavo. Non è così: gli Stati Uniti, così come le Filippine, sono in realtà un crogiuolo di razze e tradizioni. Io sono una miscela di tutto questo.
Negli ultimi anni il cinema filippino è conosciuto principalmente per le titaniche opere di Lav Diaz. Le piacciono i suoi film? Quali sono i suoi cineasti di riferimento?
Ho avuto modo di conoscerlo e lo trovo un grande artista ma io faccio un cinema diverso: non ho uno stile documentaristico e non sono impegnato politicamente. Cinematograficamente penso di essere più americano. Nelle Filippine i film non parlano di famiglia come fa il mio lavoro. Adoro il modo di girare di Terrence Malick, Milos Forman e Walter Salles anche se per Santa Mesa mi sono ispirato a film con una intensa forza drammatica come Tempesta di ghiaccio di Ang Lee, L’appartamento di Billy Wilder e Cinque pezzi facili di Bob Refelson.
In che modo descriverebbe il suo primo film?
Un racconto vecchio stile su un quasi adolescente che rischia grosso pur di riunire la propria famiglia. Sullo sfondo una città come Manila, un posto che ti spiazza completamente sommerso com’è dal caos e la povertà.
Ha filmato uno splendido rapporto tra padre e figlio. Ha preso spunto dalla sua esperienza personale?
Non proprio. La mia non è mai stata una famiglia troppo unita. Immaginavo che Santa Mesa avrebbe rafforzato la nostra identità ma non pensavo fino a che punto. Mia madre si è rivelata la mia fan più grande: mi segue in tutti i festival e ha finanziato parte del film.
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