Pubblichiamo alcuni brani dell’intervista contenuta nel volume “Roman Polanski” curato da Stefano Francia di Celle e pubblicato dalla casa editrice il castoro in occasione della retrospettiva integrale che il Torino Film Festival dedica al regista.
Polanski, che cosa ricorda con più nostalgia del suo periodo romano?
La casa al numero 201 della via Appia Antica, con le vigne e il palazzo. Eravamo una specie di piccola comunità: assieme a me c’erano Andy Braunsberg, il mio socio all’epoca, Gérard
Brach, lo sceneggiatore con cui lavoravo, e Hercules Bellville, il mio aiuto, che tra l’altro ha mosso i primi passi nel mondo del cinema con Repulsione e che ora è produttore. Eravamo noi quattro, sempre circondati da amici che per lo più lavoravano nell’ambiente del cinema,
ma anche da altra gente e da giovani donne di nazionalità diversa. In quegli anni, poco prima delle Brigate Rosse, Roma viveva un momento splendido. Stare tutti insieme in quella città era meraviglioso, non solo per le bellezze architettoniche o i giardini, ma soprattutto perché
vi si realizzavano molti bei film. Si respirava un’aria molto creativa, Roma aveva quella dolcezza che ora sta svanendo e vi aleggiava ancora l’atmosfera del grande cinema italiano, che a mio parere è ormai defunto. E noi eravamo giovani appassionati di cinema.
Tra i personaggi che ha interpretato nei suoi film, quale la soddisfa di più?
Alfred in Per favore non mordermi sul collo. Il film è una commedia, è leggero, divertente. Conservo un ricordo meraviglioso delle riprese. Eravamo tutti di buon umore, probabilmente grazie al soggetto, visto che si trattava di una parodia dei film horror. Per me è stata anche l’occasione di recitare accanto a Jack MacGowran, un attore straordinario: lavorare al suo fianco davanti alla macchina da presa è stata un’esperienza immensamente piacevole.
Nel corso della retrospettiva sarà presentato “Una pura formalità”. È soddisfatto di quell’interpretazione?
Sì, anche se è stato un lavoro un po’ più cupo. L’atmosfera di un film influenza lo stato d’animo di un attore, e nel caso del film di Tornatore il clima era un po’ deprimente. Il mestiere dell’attore è un mestiere difficile, un po’ malsano, perché esige che una persona finga di essere un’altra dieci o quattordici ore al giorno, per settimane intere, a volte mesi. Poi, a fine giornata, ci si aspetta che l’attore sia perfettamente normale ma, se si fa bene il proprio lavoro, è pressoché impossibile. Io nel lavoro sono serio e recitare mi costa molto. Mi è piaciuto lavorare con Tornatore, perché è davvero creativo, è un regista interessante. Ma è stato molto più divertente recitare in Zemsta, perché è una commedia e io interpretavo un personaggio spiritoso, abbastanza ridicolo. Interpretare ruoli comici non mi costa molta fatica.
E il cameo che ha interpretato con Nanni Moretti in Caos calmo?
È stato molto simpatico, perché era una parte semplice e Nanni mi ha aiutato a trovare la chiave giusta. Ho bisogno di avere qualcuno di fronte che mi guidi, ho bisogno di un direttore d’orchestra: mi confrontavo con un attore eccellente e mi sono sentito rassicurato.
Saranno proiettati a Torino anche alcuni film che documentano il suo lavoro sul set e il recente documentario “Roman Polanski: Wanted and Desired” (2008) di Marina Zenovich, sulla vicenda giudiziaria che la tiene ancora oggi lontano dagli Stati Uniti. Che cosa ne pensa?
L’ho visto. È un buon film, da tutti i punti di vista. Anche se non mi riguardasse personalmente, lo giudicherei un ottimo documentario. Dato il mio coinvolgimento, lo considero ancora più interessante perché per la prima volta viene illustrata una serie di fatti che tutti ignorano. La gente non conosce le ragioni del mio allontanamento dagli Stati Uniti e ripete sempre la stessa leggenda che si tramanda come una palla di neve che rotola, visto che ogni volta che i mezzi di informazione rinvangano la vicenda aggiungono qualcosa. Del resto oggi è comune: se vuoi scrivere un articolo, prendi il computer, inserisci il soggetto su Google e aggiungi qualche frase al materiale che già esiste in rete. Così un fatto assume proporzioni demenziali che hanno poco a che vedere con la realtà, nel mio caso con gli eventi accaduti. Wanted and Desired va ancora più a fondo di quanto potessi sperare, perché la regista porta alla luce fatti che sono stati ignorati per trent’anni anni; nello specifico, il fatto che il viceprocuratore distrettuale ha illecitamente influenzato il giudice senza che la difesa e persino il procuratore distrettuale incaricato del caso lo sapessero. È un modo di procedere che negli Stati Uniti è realmente considerato illegale e che, se ne fossimo stati a conoscenza, avrebbe portato all’immediata archiviazione del caso.
Per molti anni ha detto che “Cul de sac” è il film che più si avvicina al suo ideale di cinema. È ancora così?
Ora sceglierei Il pianista, in cui cambierei pochissime cose. Praticamente mi soddisfa dall’inizio alla fine: volevo realizzarlo così e ci sono riuscito. In ogni film noto cose che non mi piacciono, che stridono, che vorrei aver modificato, nodi irrisolti, passaggi che non funzionano o situazioni in cui ho gettato la spugna sapendo che non avrei potuto chiedere di più a un certo attore. In Il pianista questa insoddisfazione è quasi assente. Non sono totalmente contento della scelta di alcuni attori, ci sono una o due persone del cast che avrei preferito fossero diverse, ma sono particolari secondari.
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