TORINO. C’era anche lui su quel vecchio mercantile preso d’assalto nel porto di Durazzo da oltre 5mila persone nel marzo 1991, in fuga dall’Albania comunista, dove la dittatura era ormai al collasso. Destinazione la costa pugliese e l’agognata Italia dove libertà e futuro sembravano finalmente a portata di mano. Ma il regista Roland Sejko, nel suo documentario Anija. La nave, distribuito e prodotto da Istituto Luce Cinecittà ed evento speciale del TFF, preferisce che siano altri a raccontare le ragioni e le speranze di quell’esodo biblico.
La sua storia è in fondo contenuta in quelle narrate dai protagonisti del film che si ritrovarono ammassati sulla nave Legend; per i più una scelta non premeditata, una decisione non ponderata. “Nella mia città a 80 chilometri da Durazzo avevo qualche notizia di quel che stava avvenendo nel porto e quando arrivai lì prevalse, come per altri connazionali, l’impulso improvviso di andarmene dal mio paese”, ricorda Sejko, allora 23enne e rimasto poi a vivere e lavorare in Italia.
Anija. La nave ricostruisce attraverso le testimonianze dirette di albanesi i tre esodi di massa, dal 1991 al 1997, avvenuti con le navi Legend, Vlora e Kater i Rades, quest’ultima colata a picco con il suo carico umano, dopo la collisione con una corvetta di pattugliamento italiana. E il documentario ricostruisce anche, grazie a preziosi materiali d’archivio, la tragedia comunista nascosta da immagini di propaganda, come quella simbolica e paradossale dell’unica nave costruita nell’Albania di allora e ‘messa a disposizione delle masse lavoratrici per i viaggi in mare’.
Il documentario di Sejko si differenzia da La nave dolce di Daniele Vicari tutto concentrato sull’arrivo della nave Vlora a Bari e sulla pratica di respingimento dei migranti da parte del governo italiano. Non trascurando l’elemento storico e cronologico, Anija offre invece una narrazione emotiva e drammatica delle esperienze vissute sia nel momento della fuga collettiva sia nel momento di restare in Italia o rientrare nella terra d’origine.
Il film ha avuto il contributo del MiBAC e il sostegno di Qendra Kombetar e Kinematografise, Ambasciata d’Italia a Tirana, Associazione Occhio Blu Anna Cenerini Bova.
Parte delle persone del tuo documentario le hai trovate grazie alla rubrica ‘Anch’io c’ero sulla nave’ del giornale degli albanesi in Italia, ‘Bota shqiptare’, di cui sei stato direttore?
Sì, all’inizio avevo selezionato e intervistato 20 persone, ma ho utilizzato solo la metà di queste conversazioni. In fase di montaggio, ho seguito la storia. Il documentario doveva avere una forma narrativa, cioè che fossero i personaggi a raccontare tutto. Importante è stato vederli com’erano quando arrivarono. Attraverso un’altra lunga ricerca ho rintracciato Majlinda, dopo aver visto una fotografia di lei 13enne in una mostra a Brindisi, e Ivo grazie a Facebook, dopo aver visto un’intervista di lui ragazzino trasmessa dalla Rai.
Come hai scelto questi volti?
Ho preso in considerazione le storie di gente semplice che vive con onestà e tranquillità e uno dei personaggi che amo è quello della fioraia. La misura dell’integrazione degli albanesi nella società italiana vent’anni dopo non sta nelle storie di successo che di sicuro ci sono e comunque hanno più visibilità mediatica, ma nella quotidianità normale che li vede fare lavori semplici come tutti gli altri italiani. Hanno dimostrato di sapersi integrare.
Ma la vicenda di Agron, imprenditore di un call center in Albania, non è forse il racconto di un successo?
No, è la storia di un ritorno in Albania. Volevo mostrare chi ha studiato in Italia e poi ha avuto la possibilità di realizzarsi nel suo Paese, creando un call center dove, fatto simbolico, i giovani albanesi parlano solo italiano, pur non essendo mai stati in Italia. Avrei anche voluto seguire la vicenda di uno di questi ragazzi, ma sarei andato fuori strada. Quella di Agron è innanzitutto una storia di speranza che non a caso chiude il documentario e che va in controtendenza rispetto a vent’anni fa.
Quanti sono gli albanesi che vivono in Italia e non sono più tornati?
Si calcola che dal 1991 ad oggi, un albanese su quattro vive all’estero, cioè una cifra enorme pari a un milione e 200mila, di cui 500mila in Italia. il rientro per queste persone è molto difficile, perché ora hanno creato una famiglia, i figli vanno a scuola, siamo già quasi alla terza generazione. Il legame con il paese d’origine rimane, ma purtroppo scemerà via via con le nuove generazioni.
Fino al marzo ’91 l’esodo era sconosciuto al popolo albanese?
In quella data, che corrisponde con il trauma della caduta di uno dei regimi tra i più feroci e i più chiusi in assoluto, avviene il primo grande esodo, con la nave Legend e il suo carico di 5mila persone. Un esodo che viene represso e che riesplode nell’agosto ’91 con quello della nave Vlora. Dal ’91 al ’97 l’Albania cerca la sua via di transizione per entrare nell’economia capitalistica, e certamente ci sono sbarchi minori, ma la massa che torna di nuovo in scena con il crollo delle piramidi finanziarie. Un nuovo trauma e un nuovo esodo nel marzo e aprile ’97 dall’Albania in fiamme e nel caos più totale, tanto che se ne vanno anche gli stranieri. Da allora queste fughe di grandi masse terminano e proseguono per un paio d’anni gli sbarchi clandestini con gli scafisti.
Mi piace ricordare che la parola ‘esodo’ nell’antico teatro greco indica il saluto finale degli attori quando si conclude la tragedia. Un po’ quello che fanno oggi i protagonisti raccontando di quella fuga in massa.
Come hai lavorato sul materiale d’archivio?
Ho cercato le persone all’interno delle folle, perché di solito le riprese sono piani larghi soltanto sulla massa. Le fonti sono state alcune tv private di Brindisi, la redazione Rai di Bari, Rai Teche dove abbiamo trovato materiale girato non montato, e gli archivi di agenzie di stampa francesi, inglesi e tedesche dove ho scoperto materiale se non inedito, mai più ritrasmesso.
La chicca che hai trovato?
Le immagini dell’arrembaggio alla nave Vlora nel porto di Durazzo stracarica di 20mila persone, che è mostrato per la prima volta e che ho rallentato e ingrandito in ogni minimo dettaglio, per scoprire tante storie singole.
Da dove provengono le immagini del processo, terribili e rivelatrici del clima di terrore che regnava nell’Albania comunista di Enver Hoxha?
Dall’Archivio del film albanese. Si tratta di un processo pubblico del 1978 e i capi d’accusa sono: tentativo di fuga dall’Albania, attività eversiva, agitazione e propaganda anticomunista come l’ascolto di musica capitalistica. Era un paese folle, gli accusati sono dei semplici contadini che vengono condannati a morte e la sentenza viene applaudita dagli spettatori presenti. Avevo già lavorato con i materiali dell’Archivio del film albanese e anche con quelli dell’Archivio Luce per il precedente documentario Albania il paese di fronte, cioè la storia dell’Albania vista dall’Italia, dall’indipendenza del 1912 al 1990, prima della caduta del regime comunista. Il film si chiudeva con un cartello che annuncia la partenza delle navi dell’esodo.
E il documentario che porti qui a Torino è la continuazione?
No, perché cambia la visione. Là parlava solo il materiale d’archivio, qui invece fa da sfondo e in primo piano sono le persone, con le loro esistenze durante l’infanzia e l’oppressione del regime comunista, con le ragioni della loro fuga. L’esodo del ’91 era la fuga da uno dei regimi più feroci, non a caso quando siamo partiti eravamo dei fuggiaschi e quando siamo scesi a terra, l’Italia ci ha accolto come profughi. La prova generale di tutto questo ci fu un anno prima con la crisi delle ambasciate. Pochi sanno quante persone sono state uccise e quante condannate nel tentativo di lasciare il nostro Paese. L’ordine di sparare contro chi tentava di fuggire è stato in vigore fino al 1990.
Molto curata la scelta del commento musicale.
A Robert Bisha ho chiesto di riscrivere al pianoforte dei motivi popolari albanesi poi impiegati nella prima parte. Le altre musiche sono state usate come contrappunto alle immagini. La canzone più importante è quella di Bob Dylan, “When The Ship Comes In” del 1962, per il suo testo che racconta il momento dell’arrivo di una nave che cambierà il mondo. “E il sole rispetterà ogni volto sul ponte della nave”, recita un verso riportato su un foglietto rimasto sulla mia scrivania tutto il tempo che ero in sala montaggio.
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