LECCE. Scommessa non facile quella affrontata dal regista pugliese Nico Cirasola, con il suo Rudy Valentino che in anteprima inaugura la 19° edizione del Festival del cinema europeo e in sala uscirà il 24 maggio. A quasi 9 anni di distanza dalla docufiction Focaccia Blues, Cirasola si cimenta con la storia straordinaria di un suo corregionale, Rodolfo Guglielmi, che emigrato 18enne da Castellaneta, provincia di Taranto, negli Stati Uniti, divenne negli anni Venti con il nome d’arte di Rodolfo (Rudy) Valentino, un divo del cinema muto e uno dei primi sex symbol.
Rudy Valentino, prodotto da Alessandro Contessa per Bunker Lab e da Mediterranea, narra il ritorno, nell’estate 1923, di Rudy al suo paese natale, dove il film è stato girato, sia per ritrovare i luoghi e le persone a lui cari, sia per ricercare la sua identità oltre il mito. Grazie a un insolito mix di passato e presente, Rudy (Pietro Masotti) insieme alla moglie Natacha Rambova (Tatiana Luter), scenografa e costumista, arriva all’improvviso sul palcoscenico di un teatrino di Castellaneta, dove oggi una compagnia amatoriale, guidata da un goffo capocomico (Nicola Nocella), sta allestendo uno spettacolo proprio sul divo che torna temporaneamente in Puglia. Un rientro amaro in un’Italia, e più che mai in un piccolo paese arretrato, entrambi soffocati dalla retorica fascista e dal cattolicesimo conservatore.
Cirasola, ricorrendo a due partecipazioni ‘autorevoli’ come quelle di Claudia Cardinale e Alessandro Haber, focalizza un episodio della vita di Rudy poco conosciuto, anzi sorvolato nelle biografie pubblicate. E’ grazie a una rassegna berlinese che il regista scopre che Rudy famoso tornò in Italia nel 1923 per presentare a Milano l’anteprima italiana de I quattro cavalieri dell’Apocalisse, anche se il ‘Corriere della Sera’ dell’epoca gli dedica solo un trafiletto. Poi Cirasola ha ricostruito questa presenza di Rudy faticosamente: una sua fotografia con il fratello Alberto a Roma, l’incontro con D’Annunzio, la visita al set di Quo vadis? e quella di Napoli, e da solo è venuto anche a Castellaneta.
“Rodolfo incarna le contraddizione del sogno americano: il viaggio dell’emigrante dal Sud Italia, l’obiettivo realizzato della popolarità, il fascino del seduttore – dice il regista – E ne rappresenta il rovescio della medaglia: la nostalgia del paese d’origine, lo scontro familiare, il provincialismo, la delusione”. E centrale nel film per il regista è il tema del ritorno. Non c’è nessuna partenza senza il desiderio di tornare. “E’ un film contemporaneo – continua il regista – perché parla dell’emigrazione, di quella nostalgia del paese d’origine che all’estero l’emigrante idealizza”.
La scelta di svolgere parte del film su un palcoscenico? “E’ una citazione di Dogville di Lars von Trier dove tutto è raccontato attraverso il teatro. C’era da prendere una direzione precisa: un film tutto in costume, oleografico e magari stucchevole, oppure questa scelta esasperata narrativamente, mettendo insieme il passato e il presente rappresentati in contemporanea sul palcoscenico. Una scelta solo in parte produttiva ma soprattutto stilistica. E’ un Valentino moderno quello che mostro”.
L’omosessualità, vera o presunta, di Valentino non interessa al regista. “Lo si riteneva effeminato, tanto da soprannominarlo ‘piumino di cipria’. Se ha avuto rapporti omosessuali è accaduto per raggiungere il suo scopo. Ma non credo che i suoi matrimoni fossero una copertura, sentiva la necessità di avere una famiglia, sognava di avere dei figli, invidiava il fratello che era padre. Quel che importa è che Valentino è stato il primo a costruire il divismo. E allora gli viene chiesto di indossare l’orologio da polso ne Lo sceicco, film in costume, e subito lo fa, e questa è una novità assoluta. Addirittura ha utilizzato il trucco nella vita reale ed era pagato profumatamente dagli sponsor”.
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