“Qui dove i bambini vivono morendo ogni libro è un grido di libertà”. Potrebbe riassumersi con queste poche parole il cuore del nuovo documentario A Mao e a Luva di Roberto Orazi, che al Festival di Roma aveva portato (con successo) anche il suo precedente H.O.T Human Organ Traffic. Anche stavolta l’obiettivo è puntato fuori dall’Italia, nel caso specifico nella favela di Recife, in Brasile, dove il regista ha documentato l’avventura di Ricardo Gomes Ferraz – in arte KCal – poeta e musicista 35enne che ha portato un seme di speranza tra le baracche e la violenza della sua comunità. Anche se tutti lo prendevano per pazzo, Kcal è riuscito a creare nella sua casa-palafitta una biblioteca diventata un punto di ritrovo per bambini che magari non avevano mai visto un libro, ma che erano abituati a vedere droga, prostituzione e armi ad ogni angolo. Un progetto minuscolo che negli anni è diventato grande, e ha portato il “trafficante di libri” Kcal a ottenere un prestigioso premio per la cultura, a veder riconosciuta la sua opera dal ministro della cultura brasiliano e ad assistere alla nascita di un progetto governativo grazie al quale si moltiplicano le biblioteche nelle favelas. Girato nel corso di un mese e mezzo con una troupe composta di sole due persone, A Mao e a Luva è stato prodotto da Lupin Film con un budget di circa 60mila euro ed è al festival capitolino nella sezione Extra. Prossimamente sarà disponibile in home video con Feltrinelli.
Come ha scoperto la storia di Kcal?
Tutto è nato dal precedente documentario, H.O.T., che avevo girato in Nepal, Brasile e Turchia. A Recife avevamo preso dei contatti perché volevo girare delle scene nelle favela e Kcal ci ha fatto da cicerone, facendoci entrare nella sua comunità e mostrandoci la sua biblioteca sulla palafitta. C’è stata una fascinazione immediata.
Siete riusciti a raccontare una storia di grande speranza in un contesto molto duro.
Sì, è una storia molto positiva e non nego di essermi fatto qualche scrupolo nel raccontare tutta questa positività, con un afflato poetico, in un ambiente tanto difficile. Ma è una caratteristica tipica dei brasiliani quella di andare oltre la realtà, di superare le difficoltà del quotidiano con un sorriso invece che con la depressione.
Ha deciso di lasciare fuori campo il contesto violento.
Lì gira tantissima droga, anche se è nascosta, non ce l’hai davanti agli occhi tutti i giorni, ed era possibile raccontare una storia della favela senza mostrarla. In ogni caso narrare la storia di Kcal e dei suoi ragazzi era più importante dello scenario, con le case di legno e i pescatori che tentano di sopravvivere con un lavoro onesto.
Vi siete trovati in situazioni di pericolo?
La sera della lettura pubblica c’era stata una sparatoria in mezzo alla gente su quella stessa piazza cinque minuti prima che arrivassimo noi con la telecamera. Da una parte mi è dispiaciuto non esserci, forse l’avrei messo nel film, ma questa è la storia di Kcal, che ha creato un’alternativa alla violenza, una possiblità di credere che esiste un’altra realtà in un luogo dove è normale vedere un morto per strada. E comunque grazie a Kcal, che gode di grande rispetto ed è un personaggio importante in una comunità di 90mila persone, non abbiamo corso rischi e non ci siamo trovati in situazioni di violenza e paura.
Sullo schermo si vedono molte più bambine che bambini partecipare al progetto della biblioteca.
Sì, c’è una prevalenza femminile. Le ragazzine hanno una marcia in più e hanno capito che nella biblioteca c’era una possibilità di riscatto in un contesto in cui la prostituzione è una delle poche strade percorribili. I maschi invece si vergognano un po’ di farsi vedere coinvolti da una situazione del genere, c’è molto maschilismo, ‘il maschio deve fare il maschio’. Però c’era Rafael, un ragazzino che mi seguiva già dai primi giorni mentre giravo, che viene da una famiglia con 14 figli e un padre pescatore. Voleva avvicinarsi ma non osava e Kcal non è riuscito a farlo entrare nel progetto. Poi abbiamo saputo che è caduto in un tranello e ha nascosto delle armi per dei trafficanti. Preso dalla polizia, ha fatto i nomi, e questa è una condanna a morte che lo costringe a stare chiuso in casa.
Sta lavorando a un nuovo progetto?
Sì, vorrei fare il mio primo film di finzione, una storia sulla rinascita della figura paterna interpretata da Giorgio Colangeli e con Carolina Crescentini in un piccolo ruolo. Tutto ruota attorno a un padre pescatore che lascia la barca al figlio, il quale però vuole interrompere la tradizione e usarla in un altro modo, mentre si confronta con un immigrato curdo che lavora al cantiere.
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