Dopo il tanto discusso Pinocchio, avaro di successi oltre confine, Roberto Benigni torna sui suoi passi. Con La tigre e la neve, dedicato a Isolina e Luigi, i genitori scomparsi da poco, ritroviamo le atmosfere e la narrazione de La vita è bella. Là una storia d’amore per una donna e per un figlio nello scenario di una terribile tragedia storica, qui la passione e la dedizione amorosa del poeta Attilio per conquistare la fiducia di Vittoria nei giorni del conflitto in Iraq e dintorni. Di sicuro il film farà discutere: è il fratello minore de La vita è bella o piuttosto il maggiore?
Certo La tigre e la neve è forse ancora più poetico e più romantico perché i tempi sono cupi e tristi là fuori. Le splendide notti di Baghdad sono illuminate non solo dalla luna e le sue stelle, ma dai lampi e dai fuochi dei bombardamenti. Ma anche un film segnato dall’inquietudine e da quel silenzio carico di sventura che fa da commento sonoro al suicidio del poeta arabo. La speranza è tutta in quel finale chapliniano che richiama Luci della città . Anche qui c’è una rivelazione: Vittoria riconosce in Attilio l’uomo che le ha salvato la vita là a Baghdad.
Benigni è un fiume in piena, incontenibile durante la conferenza stampa che pare quasi la continuazione di quella lezione spettacolo, davanti a studenti stupiti e attoniti, raccontata dal film.
Di sicuro qualche giornale scriverà che lei ha fatto un film buonista.
Non lo è affatto, e non è neppure ideologico. Certe opere sulla guerra arrivano alla testa, la mia va al cuore, lo squarcia. Il film entra prepotentemente nelle coscienze e nell’animo perché è contro la guerra. Ho voluto distrarre e nel contempo commuovere, perché l’arte e il cinema ci consolano. Ci sono insieme la commedia e la tragedia, parti in cui ci si diverte e parti in cui ci si commuove.
Un film epico, non intimo?
La scintilla del film è venuta da questa voglia di raccontare l’amore che fa fare follie, una forza prepotente, spasmodica, presente in tutte le epoche. E’ una storia d’amore, sulla forza dei sentimenti che è la più eversiva del mondo. In fondo questo ometto, seduto su quella poltrona da barbiere con una paletta ammazzamosche, combatte una sua guerra personale, ben più eroica di quella che si combatte in Iraq.
E un film pacifista?
Un discorso diretto sulla e contro la guerra credo che rimbalzi sul pubblico. Un approccio indiretto ha invece più forza evocativa. L’importante è che sia questa la guerra. Così vediamo la parodia di un kamikaze e il paradosso di un Attilio inconsapevole del campo minato.
Chi è Attilio?
Un poeta che vive come tutte le altre persone, che insegna alle figlie come trovare e mettere insieme le parole. Il suo lavoro non è facile, richiede tempo. Ricordo un aneddoto. Mentre ero impegnato nella sceneggiatura di Il piccolo diavolo, Fellini mi chiese perché non la scrivevo insieme al poeta Andrea Zanzotto e subito davanti a me lo chiamò al telefono. Chiesi a Zanzotto: “Non so quali siano i suoi tempi?”. E lui mi rispose “A volte per trovare una parola impiego 8 o 9 mesi”. Ecco la poesia richiede un lavoro enorme.
Soddisfatto dei suoi interpreti?
Ringrazio Jean Reno che è stato coraggioso ad accettare un ruolo che non appartiene al suo percorso d’attore. Ha detto sì subito, senza leggere il copione. E ancora una volta ho scelto Nicoletta. Lei è Vittoria, questa donna severa, elegante e dolcissima.
Perché quelle immagini de “Il buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone?
Non si tratta certo di una citazione, ma di un espediente narrativo, necessario per la scena del loro incontro a casa di lui. Non cercate troppi significati, il film è quel che si vede. Che la guerra è orribile lo sappiamo tutti. Il film comunica una grande voglia di vivere, il contrario di quel che la cinematografia di questi tempi ci offre. Una disperata voglia di vivere che fa dire ad Attilio “anche da morto mi ricorderò sempre di quand’ero vivo”. Attilio non ha paura della vita, nonostante il dolore che porta con sè.
Perché il suicidio del poeta iracheno Fuad?
Non c’è un significato particolare da rintracciare. Se non, come spesso accade, che tutte le persone sensibili di fronte alla volgarità e all’insensatezza della guerra si uccidono.
Fuad la notte prima di morire dice che dopo di noi c’è il nulla ed è allora che decide di andare alla Moschea, si rivolge a ciò che è più alto e torna alle origini.
In “La vita è bella” i soldati americani sono visti come liberatori. E qui invece?
Non c’è un giudizio sui soldati americani, lo sguardo su di loro tiene conto della pietà. E allora quello scambio di sorrisi tra Attilio e la guardia fuori dell’ospedale, o quella spinta alla moto del poeta una volta superato il posto di blocco americano. In fondo molti di loro si trovano là non per scelta, ma perché non trovano lavoro.
Non le sembra che Nicola Piovani abbia composto una musica densa di richiami felliniani?
Benché sia un complimento, non mi pare affatto. La musica è qui il metronomo di ogni battito del cuore.
Ha pensato di portare il film in Iraq?
Ho la speranza e la volontà che accada. Anche perché il film si è avvalso della consulenza di iracheni che hanno amato molto la scneggiatura.
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