Roberto Andò


Come è nata l’idea di scrivere una sceneggiatura su Tomasi di Lampedusa?
La mia non è una biografia in senso stretto. Il film prende in considerazione gli ultimi anni di vita dello scrittore: dal ’53 al ’57, anni in cui adotta legalmente Gioacchino Lanza e impartisce lezioni di letteratura inglese a Francesco Orlando. Ho preso spunto da due scritti: uno è di Francesco Orlando (Marco Pace nel film), s’intitola Ricordo di Tomasi di Lampedusa e pubblicato da Bollati Boringhieri; l’altro è la prefazione che Gioacchino Lanza Tomasi (Guido Lanza nel film) ha scritto per la storia della letteratura inglese di Giuseppe Tomasi, pubblicata da Mondadori.
Dal primo scritto, a mio avviso, traspariva una dolorosa reticenza su alcuni aspetti del rapporto tra Orlando e Tomasi di Lampedusa, la prefazione di Gioacchino Lanza, invece, rievocava questo stesso rapporto maestro-discepolo tra Tomasi Di Lampedusa e Francesco Orlando. Da qui ho cercato di stabilire una congettura su un rapporto triangolare all’interno del quale lo scrittore direzionava il proprio affetto di padre verso Gioacchino Lanza ed esercitava il suo ruolo di maestro ma anche di intimo condivisore dell’amore per la letteratura con Francesco Orlando. Ho cercato di mettere a fuoco questa triangolazione di rapporti, che può assumere anche toni amorosi.

Durante il film, Tomasi di Lampedusa sembra esercitare quasi una sorta di crudeltà nei confronti di Francesco Orlando.
Anche, certo. Volevo tratteggiare una relazione controversa. Tomasi di Lampedusa come maestro desidera manipolare il discepolo. L’allievo subisce un rapporto di tipo “feudale” ma allo stesso tempo condivide con lui dei momenti di intensità assoluta, lungo i quali intraprendono insieme il cammino impervio della letteratura. Nel film Marco solo dopo, in tarda età, scopre che vi è stato un riconoscimento della sua opera da parte del principe. Ho idea in generale che spesso i maestri si riconoscano a posteriori. Il giovane Marco Pace vive la morte del principe come una sorta di liberazione. Dice infatti lungo il film: “come una soffocazione cessata per sempre”.

Un’immagine di Tomasi di Lampedusa un po’ “particolare”.
Uno scrittore è un vampiro, perché si occupa della vita degli altri. In questo quadro le relazioni con il prossimo sono spesso difficili. Ma Tomasi è anche l’incantatore, come Prospero nella Tempesta di Shakespeare, incantatore di Miranda e Calibano.

Il film si svolge quasi tutto in interni, in particolare la macchina da presa si sofferma a lungo nello studio di Tomasi di Lampedusa. Può spiegare questa scelta?
È innanzitutto una scelta di rappresentazione teatrale. In secondo luogo io sono siciliano e per il siciliano il rapporto ombra/luce è un rapporto combattuto. L’esterno costituisce molto spesso una sfida. Non a caso gli esterni in questo film sono sempre caratterizzati da una luce accecante. Lo studio di Tomasi di Lampedusa diventa il luogo dove ci si protegge dalla vita attraverso lo strumento della letteratura, e poi vi è la ferita di luce…

Perché Michel Bouquet per il ruolo di Tomasi di Lampedusa?
In Italia nessun attore era in grado di interpretare Tomasi di Lampedusa. Michel Bouquet è un grandissimo attore di teatro. In particolare sa rendere credibile la vita di uno scrittore, perché corrisponde intellettualmente allo scrittore.

Quanto a Leopoldo Trieste, il fatto curioso è che assomiglia a Lucio Piccolo.
Sì, assomiglia molto a Lucio Piccolo. Questa persona era rimasta uno dei pochi legami familiari che riportava lo scrittore al passato della propria famiglia. Quando Tomasi di Lampedusa andava a trovarlo a Capo d’Orlando vi ritrovava una sorta di paradiso perduto. Lucio Piccolo era un intellettuale ed anche una personalità stravagante, facevano cerimonie esoteriche nella villa.

Lei è stato assistente di Francesco Rosi e Federico Fellini. In quali film in particolare?
Sono stato assistente alla regia di Francesco Rosi in Cristo si è fermato a Eboli e di Fellini in E la nave va, ma ho collaborato anche con Francis Ford Coppola per il Padrino III e con Michael Cimino per Il Siciliano.

Secondo lei qual è lo stato attuale del cinema italiano?
La società italiana non è rappresentabile in questo momento… è una realtà complessa, mentre il cinema italiano manca di forza, non esce ancora dalle secche del minimale. Sono molto rari i film italiani in cui si riesce a rappresentare la realtà attuale della nostra società. Un film italiano che racconta una storia ma che riesce allo stesso tempo a parlare della nostra realtà è Il ladro di bambini di Gianni Amelio. Ma in generale i cineasti italiani sono malati di necrofilia, sono dei feticisti a differenza degli americani.

E la letteratura italiana contemporanea? Secondo lei c’è qualche autore che riesce a parlare della nostra realtà sapendo raccontare storie?
Stimo molto Daniele del Giudice ed Erri De Luca, ma né l’uno né l’altro spiegano la realtà attuale. Il primo è un autore di modello calviniano, l’altro racconta il lato religioso e sacro della vita, ma anche la maledizione del vivere. Uno scrittore invece che ha saputo rappresentare la realtà, e che è stato il “mio Tomasi di Lampedusa” è Leonardo Sciascia.

Lo ha conosciuto?
L’ho incontrato a 19 anni. È stato il mio personale maestro.

Qualche autore più giovane?
No. Non mi vengono in mente.

Un regista che ama?
Claude Sautet. Con Un cuore in inverno e Nelly e Mr. Arnaud è riuscito a portare nel cinema la profondità della letteratura senza per questo tradire il cinema stesso. È riuscito a stabilire una comunicazione non letteraria e letteraria al tempo stesso, tra la pellicola e la letteratura. Molti registi famosi in Francia chiamano Sautet “il medico delle sceneggiature”. Io stesso gli ho sottoposto la sceneggiatura del Manoscritto del principe per chiedergli dei consigli. Conservo gelosamente la sua risposta.

Questo film è stato prodotto da Giuseppe Tornatore. Quali sono stati i rapporti con lui?
Tornatore è un regista fuori razza, possiede una tendenza al melodramma americano. È un cineasta puro, sa raccontare storie come fanno gli americani. Come produttore è capitato che ha visto al Festival di Venezia il mio primo lungometraggio, Diario senza date con Bruno Ganz, e ha poi voluto produrre Il manoscritto del principe. Credo che sia stato spinto da una curiosità intellettuale.

Una curiosità: Francesco Orlando e Gioacchino Lanza hanno visto il film? E se sì, come hanno reagito?
Bene. Francesco Orlando ha voluto correggere alcuni dati biografici, ma ha espresso comunque la convinzione che si può e si deve inventare nel cinema; Gioacchino Lanza ha parlato di questo film come della metafora di un’isola in disfacimento, lo ha criticato positivamente. Ha detto anche che gli ricordava un film di Fellini.

Ci sono persone, soprattutto giovani, che non hanno mai letto “Il Gattopardo” e non conoscono la figura di Tomasi di Lampedusa. Secondo lei questo film può aiutarle a capire lo scrittore e la sua opera?
Ho incontrato molti giovani e ho ricevuto molte lettere in cui gli spettatori hanno rivelato una sincera complicità con la storia. Questo film parla prima di tutto dell’incontro tra un maestro e due discepoli. Nella vita capita spesso di avere un maestro, qualcuno che ti indica la strada. Dunque la gente, più o meno giovane che sia, si riconosce in questa situazione.

autore
16 Maggio 2000

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