Roberta Torre: “Pasolini trent’anni dopo”


A Locarno era già stata nel 2006, in concorso, con Mare nero, forse il suo film meno fortunato, amor fou in chiave thriller con gelosie, paranoie e scambisti. Ora torna in Ici et Ailleurs con due documentari brevi (23 minuti) che insieme compongono un unico film-saggio su Pasolini, la sua morte e l’eredità che ha lasciato (ma forse no) nei ragazzi di vita di trent’anni dopo. Materiali di lavoro per uno spettacolo teatrale dell’Accademia Perduta che andrà in scena a giugno 2010, sono prodotti entrambi dalla sua Rosetta Film: Itiburtinoterzo, storie di vita e di ragazzi è una carrellata di volti, corpi e confidenze dentro una “riserva indiana” dove ognuno ha il suo soprannome e dove a vent’anni sei già spacciato e ti guardi indietro con la paura che non riuscirai mai a rimettere in piedi la tua vita. La notte quando è morto Pasolini nasce come intervista a Pino Pelosi, che allora, in quel 2 novembre del ’75, era un “pischello” di 17 anni e si prese la colpa del massacro e nove anni di carcere perché era ancora minorenne. Al di là delle parole, il documentario è un’impressionante manovra di avvicinamento a un mistero italiano ancora insoluto – nonostante l’interrogarsi degli intellettuali, del teatro, del cinema – che Roberta Torre fotografa con i silenzi e gli sguardi di Pelosi, col suo muoversi incessante e nervoso mentre parla a ripetizione. L’intervista è contrappuntata dalle foto del cadavere straziato e dalle immagini degli indumenti ancora conservati in buste e scatoloni dalla magistratura: l’anello di Pelosi, quello con la pietra rossa, lasciato sul pratone come indizio dagli “assassini” sconosciuti, le scarpe alla Elton John con i tacchi a zeppa e il fiore sulla tomaia, il giubbotto rosso alla Fonzie con la doppia vu. E’ da questi dettagli, soprattutto, che esce un Pelosi inedito, uno che non dice la verità a nessuno, neppure a sua madre, che è morta pensando che fosse un omicida, un bambino cinquantenne cresciuto in galera che passa per il corridoio del suo scantinato con un triciclo come in quella scena di Shining.

 

Ha scelto di lasciare spazio a Pelosi con le sue contraddizioni, le sue evidenti bugie, le ripetizioni retoriche, lo sguardo che cerca disperatamente la conferma dell’interlocutore.

Ho cercato di vedere Pelosi in una dinamica umana, come un ragazzino che si è trovato dentro una storia enorme e lì è rimasto fermo. Perché la sua vita si è fermata là, all’Idroscalo di Ostia. Pelosi che cambia versione: condannato per l’omicidio di Pasolini, trent’anni dopo, nel 2005, accusa tre sconosciuti, tre anni dopo mette in mezzo i fratelli Franco e Giuseppe Borsellino, che nel frattempo sono morti. Quando ho chiesto a Pino Pelosi che cosa lo legasse a Pasolini lui mi ha risposto: “Forse aveva visto in me quello che lo poteva uccidere”. E’ una frase di potente intuizione pronunciata da un uomo rozzo e ignorante come lui…

 

Ha collegato in qualche modo Pelosi ai ventenni del Tiburtino Terzo di oggi. In che cosa sono diversi dai ragazzi di vita di un tempo?

Soprattutto è cambiato il momento storico, oggi non c’è più nulla, questi ragazzi si muovono nel vuoto, potrebbero essere quelli di X Factor o di un altro reality. Un tempo era più difficile cambiare il proprio destino, la borgata era un mondo a parte, oggi nella tv siamo tutti uguali e stiamo tutti insieme. Ma paradossalmente questo è ancora più frustrante per loro. Fanno soldi facili con la droga, ma poi è la droga in tutte le sue declinazioni, e soprattutto la cocaina, che li tiene schiacciati.

 

E’ riuscita ad andare oltre il reportage, a farli parlare davvero.

Il film nasce da una frequentazione di lunga durata, li ho incontrati attraverso una persona che li conosceva e il rapporto con loro non era finalizzato a fare un film. Così mi hanno detto cose molto personali. Con Pelosi è stato lo stesso. Volevo capire l’essere umano, cosa ricordava di quella notte, cosa ricordava di Pasolini, che rapporto c’era tra loro. Però comunque, nonostante tutto, nell’intervista devi leggere tra le righe, perché Pelosi non si dà molto, come non si danno i ragazzi del Tiburtino Terzo.

 

Cosa è rimasto di Pasolini nella cultura italiana?

Molto poco. Più di ogni altra cosa mi sconvolge la sua capacità profetica: Pier Paolo riuscì a intuire la totale incapacità di sottrarsi all’egemonia della televisione che è stata il fattore decisivo nel cambiamento dell’immaginario collettivo, specie rispetto alla politica. Un argomento attualissimo, con la vicenda di Patrizia D’Addario ad esempio. E’ questa la vera rivoluzione, ed è una rivoluzione senza ritorno. Leggendo le conversazioni tra la D’Addario e il premier pubblicata dall’Espresso sono soprattutto incuriosita dal cambiamento del linguaggio. E’ questa la vera differenza a mio giudizio: il potere è sempre stato così, ma un tempo non se ne sarebbe parlato, oggi invece riempie le prime pagine dei giornali. Sicuramente diventerà prima o poi anche una fiction.

 

Adesso sta lavorando a un nuovo lungometraggio, che parla di miracoli, con Donatella Finocchiaro, l’attrice catanese che ha scoperto con “Angela”.

Si intitola I baci mai dati e lo girerò a ottobre in Sicilia, a Catania. Donatella Finocchiaro è la madre di una quindicenne, una ragazzina che per gioco s’inventa di poter fare miracoli, ma il gioco diventa una truffa, un mestiere, un modo di far soldi, perché incontra il grande bisogno di miracoli della gente, che è un fenomeno assolutamente reale. Girerò nel quartiere di Librino, un quartiere della periferia progettato dall’architetto giapponese Kenzo Tange come quartiere modello ma abbandonato poi a lungo al degrado e oggi recuperato dagli artisti con installazioni e altri interventi. E’ un luogo visivamente molto forte, un mondo a parte che mi ha sempre affascinato.  

 

Sui miracoli ha fatto ricerche sul campo?

Ho parlato con molti miracolati e sono stata spesso in una chiesa di Catania dove si conservano moltissimi ex voto. Ho scoperto un universo che chiede e che vive tra fede e credenza, un mondo molto interessante.

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04 Agosto 2009

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