Robert Redford, Meryl Streep e Tom Cruise, il futuro dell’America, le scelte di politica estera dei repubblicani. Lions for Lambs è sicuramente il film più politico della Festa, un film comizio che mette insieme il potere di tre grandi star per costruire un saggio di politologia in tre episodi: un professore di Berkeley (Redford) cerca di convincere un giovane allievo dotato di dialettica a non lasciarsi andare all’apatia; un senatore amico di Bush e Condoleezza (Cruise) tenta di rifilare a un’affermata giornalista (Streep) un presunto scoop sulla strategia bellica; due ex studenti idealisti, uno messicano e l’altro nero, si fanno massacrare sulle montagne dell’Afghanistan dai talebani. Affollatissima conferenza stampa per Leoni per agnelli, in uscita il 14 dicembre con la Fox: arrivano con tre quarti d’ora di ritardo il favoloso settantenne Redford e il rampante quarantenne Cruise, che sta dietro la produzione di questo film come di Valkyrie di Bryan Singer, progetto contestato e contrastato, che lo vede nei panni dell’ufficiale tedesco a capo del complotto contro Hitler. Tom, dribblando anche una domanda su Scientology, confessa la sua enorme ammirazione per Robert ma un po’ ci gioca su: “Quando eravamo sul set, vedendolo insieme a Meryl Streep sono andato in trance: mi sembrava di assistere a una scena de La mia Africa“. Però è il vecchio leone a rubare tutta la scena, con il suo fascino e la sua bella faccia scolpita.
Redford, che posto occupa questo suo nuovo film da regista nella sua lunga storia di impegno civile e di denuncia?
La politica mi interessa come cittadino e come artista. Quando nel tuo paese succedono certe cose o le ignori o ti impegni profondamente. È una fortuna essere nato negli Stati Uniti, perché è un paese dalle molto virtù, ma purtroppo queste virtù vengono anche tradite. Io cerco di scagliarmi contro questi tradimenti. L’ho fatto con Il candidato, che prendeva di mira il modo in cui avvenivano le elezioni, sulla base dell’immagine più che della sostanza. L’ho fatto con Tutti gli uomini del presidente, un film che raccontava come il giornalismo abbia salvato il primo emendamento della nostra Costituzione. Mentre con I tre giorni del Condor ci siamo occupati della Cia e degli abusi che vengono compiuti senza dover rispondere delle proprie azioni. Oggi viviamo in una società dell’informazione in cui le notizie vengono manipolate ed era interessante affrontare le cose da questa angolazione. Abbiamo perso molte vite umane, abbiamo perso la stabilità economica e la nostra posizione nello scenario internazionale: sono accadute tante cose poco chiare di cui è importante parlare.
Il film si rivolge in particolare ai giovani: è quasi un appello all’impegno.
Sono loro che devono prendere in mano la possibilità di farsi sentire oppure voltare le spalle alla politica. Ci sono coloro che sono cresciuti nella convinzione che bisogna lottare per il proprio paese e coloro che sono piuttosto sfiduciati perché sono convinti che il sistema sia irrimediabilmente corrotto. Spero che questo film sia una specie di catalizzatore.
Quando ha scoperto la sua passione per la politica?
Da ragazzo non me ne importava niente. In realtà non ci pensavo finché non sono venuto in Europa, a vent’anni, a studiare storia dell’arte a Firenze. È stato allora che ho cominciato a parlare con altri ragazzi di politica: mi facevano molte domande e mi mettevano in difficoltà. Mi hanno spinto a guardare il mio paese da un punto di vista diverso.
Ha una visione piuttosto negativa dei media americani.
La realtà del nostro paese è molto complessa e non bisogna schematizzare. Continuano a esistere giornalisti che cercano la verità. Eppure dopo l’11 settembre ci hanno chiesto di mettere da parte i nostri diritti e la libertà di espressione per sostenere il nostro paese. Un partito aveva tutto il potere nelle sue mani e abbiamo dovuto pagare un prezzo molto alto con la guerra. I media però hanno taciuto, per paura o perché controllati.
Qui si fa un gran parlare delle defezioni delle Festa. Lei pensa che le star siano necessarie ai festival?
Non credo. Il mio festival, il Sundance, è un festival indipendente che scopre nuovi talenti e che mostra film di autori poco noti, eppure ce l’ha fatta a diventare qualcosa. Le star sono arrivate dopo: e sono state le benvenute, naturalmente.
Come deve il futuro dell’America? Pensa che “Lions for Lambs” contribuirà a cambiare qualcosa nelle coscienze.
Sono un ottimista pessimista. Ma col film non voglio fare propaganda ma solo far riflettere la gente.
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