C’è sempre una buona dose di saggezza nelle parole di Richard Gere, l’attore famoso (anche) per la sua adesione al buddismo tibetano. A Roma per presentare Franny, opera prima di Andrew Renzi che uscirà il 23 dicembre con Lucky Red, ipotizza un incontro tra Papa Francesco e il Dalai Lama. “Parlerebbero sicuramente di come aiutare il mondo e renderlo più sano, rendere l’umanità più compassionevole e meno violenta rigettando la follia dilagante. Sarebbe l’incontro tra le due persone più rispettate nel mondo con milioni di seguaci, due uomini straordinari al culmine del loro potere che provengono da due culture molto diverse ma potrebbero rivolgersi al mondo intero e fare del bene”.
Anche il protagonista di Franny cerca di fare del bene. E’ un uomo ricchissimo e un po’ misterioso, una specie di filantropo di professione: ha aperto un grande ospedale pediatrico e quando ritrova Olivia, la figlia dei suoi migliori amici, morti entrambi in un incidente d’auto in cui anche lui è stato coinvolto, comincia a mettere le sue enormi risorse al suo servizio. Offre un prestigioso lavoro nella clinica al marito di lei, giovane medico appena laureato, e arriva a comprare la villetta dove Olivia, che ora è incinta, viveva da bambina. Vuole “aiutarla” oppure sta cercando di manipolare la sua vita? Il dubbio è legittimo anche perché Franny è un tossicomane che fa uso di forti dosi di morfina e alterna stati depressivi a momenti di esaltazione. Nel cast, oltre a Gere, ci sono Dakota Fanning e Theo James nel ruolo della giovane coppia.
Ultimamente lei sembra attratto da progetti indipendenti e da personaggi difficili, ricchi di chiaroscuri, per certi versi indefinibili.
Ciò che è difficile è più divertente, non trova? Anche un altro film che ho girato di recente, Oppenheimer Strategies, come Franny è un film indipendente con al centro un personaggio non semplice. Mi piacciono i film veloci, girati in pochi giorni, con pochi soldi, che per l’America sono 5/6 milioni di dollari. Ho guadagnato abbastanza in passato da potermi permettere di accettare ruoli poco pagati. Per quanto riguarda la complessità dei personaggi, la vita è ricca e complicata e non vedo perché dovremmo ridurla a qualcosa di semplice. Se si scava in un essere umano, ne emergono tutte le complessità. Anche il mio precedente Time out of mind di Oren Moverman parla di una situazione estrema, un uomo senza lavoro che vive per strada.
La recente strage di San Bernardino ha riportato alla ribalta il problema della violenza e delle armi negli Stati Uniti. Cosa ne pensa?
Probabilmente ci sono più armi in America che in qualsiasi altro paese del mondo. Ci si aspettava che dopo il massacro di San Bernardino tutti si sarebbero sollevati, dicendo basta alle armi, invece è successo esattamente il contrario, tutti si sono detti pronti ad armarsi ancora di più. L’unica cosa da fare è guardare alla cause di queste violenze. Perché queste persone si comportano così male? Chi commette un crimine va fermato e la legge deve fare il suo corso. Però sono contrario allo spirito di vendetta, ai vigilanti privati. Bisogna tornare alle radici degli esseri umani: solo la compassione, la comprensione e la vera saggezza possono cambiare le cause, capire perché gli esseri umani arrivano a comportarsi in questa maniera.
Tornando al film è vero che è intervenuto molto sulla sceneggiatura di Andrew Renzi?
Non ho mai lavorato a un film la cui sceneggiatura non sia poi cambiata in corso d’opera. A volte si fanno cambiamenti radicali, altre volte cambiano dettagli minori, ma è la norma una discussione con i produttori. Questo film si poteva fare in vari modi: poteva essere la storia di uno stalker che perseguita la giovane coppia, si poteva insistere di più sulla dipendenza dai farmaci del protagonista, ma sarebbe diventato un cliché. Invece io volevo una certa leggerezza, anche nella vita nelle situazioni più tragiche c’è sempre un po’ di umorismo. Volevo poi che non fosse chiara l’identità sessuale di Franny, che poteva essere anche omosessuale. Ma in fondo questo è irrilevante. È gay, è uno psicotico, è un tossico? Non lo sappiamo, non abbiamo messo un’etichetta sul personaggio.
Come mai ha deciso di lavorare con un esordiente come Andrew Renzi?
Aveva scritto questa sceneggiatura e inventato un personaggio affascinante, aveva già fatto dei corti dimostrando la sua bravura. Franny è il suo primo film, ma non certo il mio primo, quindi gli ho dato qualche consiglio. Ma mi sono fidato di lui perché raccontava una storia personale legata alla morte di suo padre: addirittura la casa del film è la stessa dove aveva passato l’infanzia. Anche un altro mio film, La frode, era un’opera prima e molto personale.
Le piacerebbe lavorare in Italia?
Perché no? Finora non è capitato. Ci sono tanti motivi che ti portano a fare un film, non sono per niente schizzinoso, ma deve crearsi una certa alchimia. Ho parlato varie volte con il mio amico Claudio Masenza della possibilità di fare il prossimo film di Bernardo Bertolucci. Ci sono tanti registi italiani che stimo.
Franny è perseguitato dal senso di colpa. A lei capita di sentirsi in colpa? E come reagisce?
C’è qualcuno in questa sala che non si sia mai sentito in colpa per qualcosa?
La figura di Franny è ispirata a qualche personaggio reale?
C’è in lui qualcosa di Ernest Hemingway, che nell’ultimo periodo della sua vita si lasciò andare. Era ingrassato, trasandato… Anch’io per il ruolo di Franny mi sono un po’ lasciato andare, dovevo avere l’aspetto di uno che mangia in un albergo da cinque anni.
Come sceglie i suoi film?
Non ho un progetto di carriera, sono istintivo. Ma quel che è certo è che devono avere un contenuto di umanità e rispettare la complessità della natura umana.
Le interessa lavorare per la televisione?
Ho iniziato a fare film negli anni ’70 e per me l’esperienza della sala cinematografica è irrinunciabile. Ma è vero che la tv americana – Netflix, Showtime, Amazon – fa oggi opere straordinarie. Però spero che ci saranno sempre delle sale.
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