Richard Dreyfuss è arrivato in Italia per presentare il cortometraggio Caserta Palace Dream, diretto da James McTeigue (quello di V per vendetta) e prodotto da Pasta Garofalo, che compie in questo modo l’interessante scelta di non girare uno spot ma un film vero e proprio coinvolgendo oltre a Dreyfuss molti attori italiani (Ennio Fantastichini, Valerio Mastandrea, Nicola Nocella e i naturalizzati italiani Malika Ayane e Kasia Smutniak). Ma è evidente che la star dell’operazione è lui, l’indimenticabile interprete di American Graffiti e di tanti altri successi targati Hollywood anni ’70, che in Caserta Palace Dream impersona Vanvitelli, l’architetto che progettò la Reggia e la pensò come un sogno che doveva protrarsi nel tempo. Gli anni si sentono e il piccolo Dreyfuss ha un po’ di pancia (che non nasconde) e un po’ di calvizie (che si vede bene), ma gli occhi rimangono vispi e arguti e le risposte sono sempre intelligenti e pepate, come si addice a un rappresentante tipico del mondo intellettuale ebreo newyorchese.
Mr Dreyfuss, lei conosceva Vanvitelli e la Reggia di Caserta prima di accettare questo film?
Sinceramente no, anche se mi hanno spiegato che la Reggia l’avevo vista in Guerre stellari, quindi in un film prodotto dal mio amico Lucas. Però in certi casi contano le coincidenze. E quello che mi ha più affascinato di questo script quando mi è stato proposto è il fatto che si trattava di una storia che andava avanti e indietro nel tempo. Io avevo appena finito di scrivere un mio soggetto che anch’esso prevede continui spostamenti d’epoca. Mi è sembrata una premonizione, e io credo molto ai segni premonitori.
E’ diverso lavorare in un set italiano, rispetto a quanto accade in America?
No, gli attori sono attori in tutte le parti del mondo e quelli italiani con i quali ho lavorato sono molto simpatici. Talmente simpatici da sopportare il mio ruolo di artista un po’ invasato e un po’ eccessivo. Siccome tendo molto a immedesimarmi con i miei personaggi, credo di essere stato così anche durante la lavorazione. E loro mi hanno sopportato, forse più di quanto mi abbiano sopportato certi miei colleghi in America. Ma nomi non ne faccio.
C’è un attore che l’ha particolarmente colpita nella sua lunga carriera?
Sicuramente François Truffaut, con il quale ho avuto l’onore di interpretare Incontri ravvicinati del terzo tipo. Lui era già stato attore, ma in film da lui diretti e prodotti. Qui doveva fare l’attore puro, ed era la prima volta. Era molto spaventato. Ricordo che dopo il primo ciak venne da me sconsolato: “Non avrei mai pensato che un set potesse essere così noioso”. Lui era abituato a piccoli film nei quali controllava tutto, in quello di Spielberg c’erano centinaia di persone sul set. Era tutta un’altra vita, un altro modo di girare. Lui ne era ben conscio, e tuttavia lamentava soprattutto la noia. Altri (e non faccio nomi) si sarebbero lamentati per la roulotte o perché avevano solo due assistenti…
I film che lei ha interpretato negli anni ’70 parlano di amore, di morte, di Vietnam, di criminalità. Parlano di temi forti: “American Graffiti”, “Incontri ravvicinati”, “Dillinger”, “Il pornografo”. Adesso si parla d’altro, nel cinema americano di oggi…
Sì, c’è stata una netta involuzione, Spielberg, Lucas, Milius e gli altri amavano lo spettacolo ma volevano anche raccontare grandi storie. In quegli anni io sono stato dentro tutti i film che hanno segnato la riscossa di Hollywood, della nuova Hollywood: American Graffiti, Lo squalo, Incontri ravvicinati… Avevo anche una piccola parte ne Il laureato, dicevo una battuta in una scena di folla, però c’ero anche lì e anche quell’esperienza è stata importante. Erano film che avevano urgenza, necessità di raccontare qualcosa. Adesso invece si mira a cercare di capire cosa può piacere al pubblico e garantire il rientro dei soldi investiti. E’ un cinema da ragionieri, non da registi. C’è un’altra cosa che ho capito girando in quegli anni: l’importanza della musica. Quando si gira i set sono noiosi, proprio come diceva Truffaut, soprattutto quando c’è tanta gente e si fa un gran lavoro. Allora, come faceva Lucas, conviene mettere la musica quando si sta girando. Tanta musica. Servirà anche per fare il film, per far capire come potrà risultare.
Adesso non si mette musica mentre si gira?
No, nessun regista la mette. E qui posso anche fare nomi, perché proprio nessuno la mette.
Lei si sente un’icona del passato?
Indubbiamente lo sono, ma non rinuncio a lavorare. E anche a scrivere storie, ne ho scritta una che coinvolge De Niro e il suo doppiatore in un’altra lingua, potrebbe essere Giannini qui da voi. E’ un bel progetto, prima o poi lo realizzerò, ma nomi, vi assicuro, non ne faccio…
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