Tre metri sopra il cielo, riprese a gennaio 2003, è l’esordio di Luca Lucini. Produce Cattleya di Riccardo Tozzi. Che spiega: “Il film è il risultato di un lavoro di sviluppo sulla sceneggiatura. Al copione ha lavorato la giovane Teresa Ciabatti, scrittrice e sceneggiatrice alle prime armi, affiancata dallo staff di developer di Cattleya. E’ un vero proprio esempio di cinema impiantato e guidato dal produttore, attraverso lo sviluppo del progetto, poi affidato al regista”, sottolinea il produttore di How Harry became a tree.
Di cosa parla “Tre metri sopra il cielo”?
E’ la storia di un amore pericoloso tra due adolescenti: lei appartiene a una tranquilla famiglia della borghesia romana, mentre lui, pur essendo dello stesso gruppo sociale, ha alle spalle una famiglia difficile. Tra i due nasce un amore autodistruttivo che finirà male per mancanza di coraggio da parte di entrambi.
La storia è tratta da un testo “pirata”?
Un romanzo di Federico Moccia, autore che tra l’altro ha partecipato alla prima stesura dello script. Il libro era stato pubblicato da una piccola casa editrice poi fallita. Dopo un po’ di tempo ha iniziato a circolare nelle scuole, diventando un testo di culto per gli adolescenti. I ragazzini lo fotocopiano e se lo passano, conoscono i dialoghi a memoria. Io l’ho pescato nella cartella di scuola di mio figlio, l’ho letto d’un fiato e ho deciso di farne un film. Tre metri sopra il cielo è una storia anticonformista perché racconta come fin dall’adolescenza i ragazzi sperimentano la morte, l’autodistruzione e la solitudine, realtà presenti dietro ogni apparente normalità. Il film è chiaramente indirizzato a un pubblico sotto i 20 anni.
Il development ha un senso in questo tipo di film?
Può funzionare sul cinema di genere e diretto a un pubblico giovanile, mettendo per un momento da parte l’animazione. E’ un passo che dobbiamo fare. L’investimento sullo sviluppo costa moltissimo e per portarlo avanti bisogna creare un sistema di cinema industriale che in Italia ancora non esiste. Investire sullo sviluppo vuol dire sottoporsi continuamente al rischio imprenditoriale. Non c’è neanche una dimensione industriale della distribuzione, arroccata com’è su due poli. Il cinema italiano attuale si indirizza ad un pubblico adulto scarso. Se sei bravissimo come regista guadagni al massimo 7/8 miliardi di vecchie lire. Il salto si farà nella quota di mercato di cinema italiano sul totale.
E un cinema medio nazionale?
Il cinema medio italiano è il cinema di genere realizzato dagli autori: D’Alatri, Comencini, qualche volta Soldini, tra gli altri. Questi registi hanno un altro modo di lavorare che non concilia con il development.
In Francia il passaggio produttivo è stato fatto: penso a film di copione e produzione come Nido di vespe di Florent-Emilio Siri (pellicola che ha aperto quest’anno Europa Cinema, festival diretto da Felice Laudadio, ndr). Oltralpe si è anche verificata un’implosione delle società di produzione. Molte case indipendenti sono scomparse e i loro produttori sono diventati figure professionali quadro all’interno di società di produzione più grandi. Non voglio essere pessimista ma credo che nel giro di poco tempo avverrà la stessa cosa in Italia. Uno dei miei stretti collaboratori, Giovannella Zannoni, in passato era un produttore indipendente con una sua società.
Il developer dunque potrebbe diventare una figura chiave. Chi deve essere?
Qualcuno che conosce a fondo la drammaturgia, la letteratura e allo stesso tempo i modi di fabbricazione del cinema. Deve avere la cultura del racconto e una mentalità orientata alla scrittura. Qualcuno che fin da piccolo ha divorato centinaia di romanzi. E questa gente, al di là di qualsiasi workshop, la troviamo nelle vecchie facoltà umaniste: lettere, lingue. Invece sarà inutile imporre le conoscenze pratiche attraverso i libri: là non si trovano.
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