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Forse ha ragione Silvio Orlando quando ricorda che la scommessa di Il posto dell’anima, terza prova di Riccardo Milani, sia quella di fondere insieme melodramma e commedia e che il risultato alla fine è che si ride e si piange perché questo è quel che conta in un film. Dopo Ken Loach, Laurent Cantet, Full Monty di Peter Cattaneo, il recente I lunedì al sole, torna sugli schermi la disperazione e l’isolamento della classe operaia.
Antonio/Silvio Orlando, Salvatore/Michele Placido e Mario/Claudio Santamaria, licenziati dalla Carair, multinazionale americana produttrice di pneumatici, che chiude lo stabilimento del Sud Italia, provano a resistere in tutti i modi, inventandosi le forme di lotta più disparate fino a mettere la loro protesta on line.
“Raccontiamo la fase terminale dell’operaio massa – chiarisce lo sceneggiatore Domenico Starnone – finito alla catena di montaggio con ridottissime competenze, la perdita di ruolo e insieme la fine di un modello di lavoro. E inoltre, attraverso Giannino, figlio del sindacalista Salvatore, registriamo l’affermarsi di un nuovo modo di considerare il lavoro nell’epoca postfordista”.
Il destino dei 3 operai è purtroppo segnato, rimangono la rabbia, lo smarrimento – “il mondo è cambiato ma non lo abbiamo cambiato noi” – l’attesa di tempi migliori, purché si salvi la propria identità morale e politica, cosa non facile quando si è vissuti come lavoratori in via d’estinzione.
Il posto dell’anima, fino all’ultimo in predicato per il Festival di Cannes, è interpretato anche da Paola Cortellesi, Imma Piro, Flavio Pistilli e Maria Laura Rondinini, girato in 7 settimane in 50 location diverse, prodotto da Lionello Cerri per Albachiara e Rai Cinema, e sarà sugli schermi il 9 maggio con la 01 Distribution.
Un’opera controcorrente?
Mi sembra che il cinema italiano racconti sempre meno le classi sociali non abbienti e preferisca rivolgersi, con piacere e successo, ai problemi psicologici ed esistenziali delle classi borghesi. Sono storie queste che non mi appartengono, perciò ho voluto raccontare gli operai con le loro lacerazioni e difficoltà, i perdenti di cui condivido la storia.
Che cosa ha evitato per non correre il rischio di essere retorico?
Non c’è mai stato questo pericolo, perché avevo di fronte drammi autentici, condizioni reali di vita. Il mio film ha origine in una sorta di fastidio civile, di giusta indignazione per come le multinazionali decidano di chiudere e ristrutturare i propri stabilimenti. Il mercato non si piega alle ragioni dei lavoratori o alle richieste di un governo, qualunque esso sia. Certo non è un film antisindacale, sottolinea le contraddizioni e soprattutto afferma l’urgenza di intervenire.
I protagonisti sono soli, con i loro rapporti familiari sempre più in crisi…
Certo la solitudine operaia è forte, ma non è soltanto loro. Credo comunque che la cultura operaia e contadina siano volutamente dimenticate. Eppure nella nostra provincia è ancora presente questa lacerazione tra il mondo contadino e quello industriale. Quando l’omologazione diventa totale, le culture spariscono man mano e la solitudine la fa da padrone.
Si ha l’impressione che la conclusione del film sia stata travagliata…
Non abbiamo avuto dubbi rispetto al finale, che è sempre stato lo stesso fin dall’inizio, perché abbiamo pensato che fosse importante dare un briciolo di speranza. Del resto in quella ricerca dell’orso c’è la consapevolezza del disastro ambientale che la corsa al profitto porta con sé.
E il titolo da dove viene?
E’ ispirato alla citazione fatta dal sindacalista Salvatore dell’indiano d’America Toro Seduto, un’invenzione di Michele Placido. Di questi tempi è importante mantenere l’anima, avere quella vitalità, quel sano ribellismo che i miei operai portano con sé.
Come ha scelto gli attori?
L’unico parametro è stato la credibilità dei personaggi interpretati, cioè che avessero la consapevolezza di vestire i panni di persone che hanno lasciato il paese di montagna per una migrazione interna.
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