LOCARNO – Normal vs REAL. Giocando con l’arte dell’autrice stessa, Adele Tulli, che s’è rivelata appunto con Normal (Berlinale, Nastro d’argento), rintracciamo nell’ultimo film, REAL, nella selezione del Concorso Cineasti del Presente di Locarno77, un marchio di fabbrica, il suo sguardo fuori dalla retorica del coro, il talento di un saper guardare alieno e quindi prossimo alla purezza, con la curiosità, il fascino e l’inquietudine che questo può suscitare nello spettatore, magnetizzato dalla visione.
REAL è, sì, un film che vive sullo schermo, ma ha insita in sé la capacità di restituire perfettamente il concetto di “immersivo”, nonostante – nel caso del cinema – non ci sia un’interazione fisica del pubblico, che però, per visionarietà, tocco estetico e registico, passo di montaggio, lei riesce comunque a creare e far vivere. La realtà che Tulli mostra, dentro cui s’addentra e fa addentrare chi guarda, è quella apparentemente più famigliare, quella del mondo digitale, che 24 ore su 24 abbraccia, o cannibalizza, le esistenze umane del contemporaneo. Eppure, “famigliare” non significa “banale”, nemmeno “prevedibile”, anzi: d’altronde, è proprio vivere immersi in un ambiente che si percepisce intimo che spesso nasconde e tace la realtà, mentre Tulli la solletica e poi la svela, dalla cybersessualità alle smart city, fino alle patologie da iperconnettività. L’autrice alza il velo su qualcosa di apparentemente conosciuto, mostra il soggetto nella sua nudità, e l’efficacia sta, in primis, nel “come”: Tulli non si limita a raccontare ma – ricorrendo all’uso di ottiche, visori, avatar e webcam – porta a segno una narrazione e una visione affascinanti quanto inquietanti, seducenti quanto scioccanti.
Adele, con REAL ha intuito dove si collochino l’umanizzazione delle macchine e la disumanizzazione delle persone? E quali bisogni – psicologici, interiori, sociali – l’essere umano cerca di soddisfare con l’uso ossessivo/invasivo del digitale?
Sicuramente, molte riflessioni che hanno ispirato il film sono partite durante la pandemia e il lockdown, in cui la digitalizzazione nelle nostre vite ha preso una piega decisamente più estrema, anche se già la tendenza era quella; la tecnologia ha gradualmente invaso le vite e il rapporto è diventato sempre più di interdipendenza o dipendenza totale. La sensazione era proprio di star vivendo una stagione antropologica e il tentativo è stato di provare a immergersi in questa mutazione, così abbiamo pensato di dare un senso attraverso le immagini a questa trasformazione in atto, al di là dell’euforia o del panico generati dalle hype tecnologiche, perché c’è sempre un po’ di tecno-fobia o tecno-ottimismo estremo, ma il tentativo era quello di fare un viaggio molto aperto, anche legato alle dipendenze, all’alienazione, all’isolamento, al controllo, alla sorveglianza, con alcuni aspetti interessanti che hanno del liberatorio: ci sono aspetti abbastanza inaspettati, di conforto trovato in spazi virtuali, una delle sorprese più grandi per me, in particolare la comunità in VR mi ha fatto capire molto le possibilità inclusive, accoglienti, che esistono nelle sacche della Rete; e questo fa pensare tanto al modello di società reale in cui viviamo, quella fisica, spesso molto faticosa e poco inclusiva. Se c’è un bisogno di fuga vuol dire che per molte persone questa società e questa realtà materiale sono diventate invivibili.
REAL cammina anche su un doppio binario: disincanto e patologia. Il doc va alla sostanza della realtà e tutto quello che racconta suscita curiosità, incanto, inquietudine. Come s’è posta rispetto a questi due temi – disincanto e patologia, differenti ma attigui?
Ha centrato la sensazione: mi interessano i contrasti. Le risposte non sono mai univoche e, in questo caso, l’incanto e il disincanto, la complessità e la fascinazione, sono un po’ riassunte nel simbolo del labirinto, che è al centro del film. Un po’ fa da simbolo della nostra condizione di essere smarriti nel caos digitale: penso a Borges, che usava questo labirinto come duplice allegoria; incanto e disincanto penso ci sono entrambi e l’aspetto della patologia è assolutamente uno dei temi che abbiamo voluto attraversare: aver incontrato delle realtà, di cui non sapevo prima di fare ricerca, delle realtà di cliniche che si occupano nello specifico di dipendenze dalla Rete, è un aspetto interessante; c’è un terapeuta che spiega come una persona cominci a vivere una realtà totalmente immersa negli universi virtuali, e così, sempre meno, riesca a tornare indietro e ad avere delle interazioni funzionali. La cosa interessante è il contraltare: in quella comunità ci sono tantissime persone che sono vittime di bullismo, che hanno vissuto difficoltà o coming out, c’è una grande comunità di sordi, ci sono tante persone che lì – nella realtà virtuale – hanno trovato un enorme sollievo. Sono due realtà a confronto e io non do mai risposte nette.
Infatti, REAL racconta con un personale punto di vista, ma senza un personale parere: lei spicca per neutralità e scelta di non giudicare. Perché ha preferito questa linea e com’è riuscita a schivare di dare sentenze?
È un po’ la cifra del mio lavoro: mi piace, con il cinema, immergermi in alcune tematiche, usarlo proprio come strumento di pensiero per provare a esplorare, approfondire e interrogare delle complessità. In particolare, questo tema è non solo vasto e complesso, ma soprattutto è molto in divenire, ci siamo proprio immersi: neanche è possibile avere la lucidità per dare delle spiegazioni o risposte definitive. È veramente un momento di mutazione in divenire, e la cosa che mi interessava fare era utilizzare il mezzo cinematografico per interrogare questo cambiamento, per porre dei quesiti, anche sugli aspetti più inquietanti o più inattesi, quelli non subito evidenti. Non è mio principale interesse chiudere le prospettive e dare risposte, piuttosto interrogare con una prospettiva critica.
Se in questo doc c’è una contemporaneità che a tratti sembra avveniristica – eppure, è più che mai tempo presente – c’è anche un senso poetico: nel suo cinema, dove cerca di far accomodare la poesia? Quali strofe, quali rime non possono mancare, a prescindere dal soggetto?
Questo forse dovrebbe dirlo più il pubblico, però, sicuramente, io cerco di lavorare su suggestioni, su simboli; cerco di utilizzare le immagini in modo caleidoscopico, spesso sono dei collage in cui non è la narrazione lineare a dominare, forse in questo ci sono aspetti che più si avvicinano alla poesia: associazioni, immagini simboliche, suggestioni, che cercano di suscitare pensieri e domande. Sono sempre tentativi di lavoro sul simbolo, in questo caso c’è il labirinto, appunto, e poi c’è l’idea dell’acqua, altro simbolo dell’inconscio, dell’onirico, ma anche soglia di luogo liminale, in qualche modo associabile al simbolo dello specchio, che è fortissimo in questo lavoro, proprio perché lo schermo è il nuovo specchio; tutti questi simboli sono anche un po’ archetipi, e mi sembra di utilizzarli per dare delle suggestioni e provare a inanellare un ragionamento sui temi. E poi c’è tanto lavoro anche sul suono e sulla musica, che un po’ va a lavorare su un’astrazione dalla realtà. Questo film lo chiamiamo ‘documentario di creazione’, ma i miei lavori sono forse più vicini a quello che nella tradizione inglese chiamano il film d’essay, che non cerca di restituire una rappresentazione della realtà oggettiva, non ha nessuna pretesa di oggettività, ma cerca di creare atmosfere, infatti io uso paesaggi sonori e musica anche per andare verso un senso poetico; in questo caso le atmosfere cercate erano anche vicine alla sci-fi, un po’ strane, perturbanti.
Lei ha scelto soluzioni tecniche – ottiche, visori, avatar e webcam – che sono fondamentali per concorre al cuore narrativo del film: c’è qualcuno di questi strumenti di ultima e ultimissima generazione su cui invita a concentrare l’attenzione, perché considera siano avanguardia e valore aggiunto?
Su questo aspetto ho lavorato tanto, è stata una delle sfide interessanti di questo progetto, ho sperimentato tantissimo perché, per il tema che affrontavo, volevo anche immaginare come venissimo osservati e interpretati dalle macchine intorno a noi, dai dispositivi intorno a noi: è stato un tentativo di restituire questi sguardi macchinici e disincarnati, per provare a immaginare come guardino il mondo. Ho giocato e sperimentato tanto, con tantissimi dispositivi: tra le cose più affascinanti c’è l’immaginario VR, che è stato veramente un viaggio, perché abbiamo girato dentro alla realtà virtuale con dei droni che facevano parte dell’avatar disegnato apposta per fare delle riprese all’interno degli spazi virtuali; abbiamo dovuto imparare la configurazione dell’avatar, che prevede la possibilità di configurare anche un drone che si usa all’interno della VR, per poter fare delle riprese; poi abbiamo utilizzato la telecamera 360, chiave concettuale di alcune soluzioni visive, con il suo sguardo che praticamente elimina il frame: finora le telecamere avevano un punto di vista che tendenzialmente veniva deciso da qualcuno, umano, invece la camera 360 è un oggetto che inquadra e registra qualunque punto a 360 gradi intorno a sé, e lo può restituire in qualsiasi forma, anche le più inaspettate e distorte, per cui la cosa interessante era catturare immagini e poi in post-produzione osservare le possibili distorsioni con cui questi sguardi macchinici possono osservare la realtà. Poi ci sono stati anche i sensori LiDAR, che creano delle fotogrammetrie della realtà, per cui questa viene scomposta in poligoni e nuvole di punti, e un esempio nel film è l’immagine del bosco. È stato affascinante provare a fare un viaggio all’interno dello sguardo delle macchine, e restituire un po’ come le macchine ci osservino.
Nell’indagine nelle varie dimensioni del reale digitale, quanta consapevolezza dell’essere umano ha colto esserci e quanta inconsapevolezza, ingenuità, faciloneria regnano?
È difficile dirlo, però, sicuramente, un aspetto su cui in assoluto c’è poca consapevolezza è la sorveglianza. Nel caso del film, l’estremo di questo fattore è incarnato dalla famiglia che vive nella smart city, un immaginario futuristico di vita, in cui addirittura possono non pagare l’affitto, perché in cambio danno accesso a tutti i loro dati comportamentali, biometrici, etc: però, non è qualcosa di lontano da quello che succede ogni giorno nella nostra interazione con i telefonini, infatti spesso non ci rendiamo conto della profilazione che avviene, delle nostre abitudini, dei nostri spostamenti, dei nostri interessi, un livello di profilazione talmente profondo per cui alcuni algoritmi ci conoscono meglio di noi stessi e questo è un aspetto di cui, secondo me, ancora non siamo del tutto consapevoli delle conseguenze, anche sociali e pubbliche.
REAL è una produzione Pepito Produzioni e FilmAffair, con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici: il film è distribuito da Luce Cinecittà – Distribuzione internazionale Intramovies. REAL è sviluppato con il supporto della residenza di scritture NIPKOW (Berlino 2021), ha partecipato al Venice Gap Financing 2023 e EWIP Koln 2023, nell’ambito del Milano FilmNetwork Atelier 2023.
Annunciato il Palmarès della 77esima edizione del Locarno Film Festival, il premio per la migliore regia è andato a Laurynas Bareiša per Seses (Drowning Dry)
Una conversazione sul tema del femminile nel cinema italiano, moderata da Piera Detassis, con ospiti le protagoniste di Locarno77: le registe Sara Fgaier, Silvia Luzi, e Adele Tulli; l'attrice di Luce, e Sara Serraiocco, interprete di Sulla terra leggeri
L’intervista all’autore, che a Locarno77 riceve il Pardo alla Carriera e presenta La vita accanto, scritto anche con Marco Bellocchio e interpretato da Sonia Bergamasco, con Paolo Pierobon, Valentina Bellè, Sara Ciocca, e dalla pianista Beatrice Barison. Dal 22 agosto al cinema
L'opera prima di Sara Fgaier, con l’attrice accanto a Andrea Renzi, partecipa in Concorso Internazionale a Locarno77: il film – storia di un'amnesia, nata intorno alla simbologia del Carnevale - è distribuito da Luce Cinecittà