BERLINO – Arruolarsi nell’esercito americano, essere spediti in Iraq a rischiare la vita per ottenere la cittadinanza in base a quanto stabilisce il Dream Act. E’ un green card soldier il protagonista del nuovo film di Rafi Pitts, cineasta anglo-iraniano per la terza volta in concorso a Berlino dopo It’s Winter e The Hunter. Con Soy Nero porta la storia di un giovanissimo messicano, Nero Maldonado, che decide di combattere per quella che considera la sua patria, ma che a sua volta lo reputa un illegale. Nel film, interpretato da Johnny Ortiz (un ragazzo di periferia, che si è fatto anche due anni in prigione, prima di diventare attore), gli Stati Uniti sono dipinti come un paese ossessionato dalle frontiere e dai controlli, in preda a una paranoia che a tratti assume toni ridicoli, come nella tirata dell’uomo, padre di una bambina, che dà un passaggio in macchina a Nero e gli mostra subito la pistola che tiene nel cruscotto (ma poi sarà a sua volta fermato in malo modo da due poliziotti). E lo stesso regista, nato nel 1967 a Teheran, trasferitosi in Gran Bretagna prima e a Parigi poi, collaboratore negli anni ’90 di autori come Léos Carax, Jacques Doillon e Jean-Luc Godard, si dice ossessionato dai confini e dalle persone che cercano di oltrepassarli. “Per me, iraniano di padre britannico, la questione dell’appartenenza è vitale e così mi ha subito appassionato la storia degli immigrati che si arruolano per la green card: ho pensato che fosse indispensabile fare un film su questo”. Nello scrivere la sceneggiatura, insieme al romeno Razvan Radulescu (autore anche della Palma d’oro 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu) si è avvalso della consulenza di Daniel Torres, un vero soldato. Nato in Messico, è stato Marine in Iraq, a Fallujah. Si era arruolato con un certificato falso, ma quando tornò a casa, smarrì la sua carta d’identità. Doveva partire per l’Afghanistan ma venne deportato a Tijuana. “Essere respinto dal paese per cui ti sei battuto, rischiando la vita, è la cosa peggiore che ti possa capitare”, racconta. E Pitts sottolinea che a volte questi militari muoiono in battaglia e il funerale viene celebrato con la famiglia dall’altro lato della recinzione, in Messico, anche se poi uno di loro riceverà la bandiera americana e la possibilità di ottenere la cittadinanza grazie al sacrificio del proprio congiunto.
Non ci sono cifre esatte, ma pare che più di 3.000 persone siano state deportate dopo aver combattuto nell’esercito Usa. Spiega Daniel: “Sono veterani che al primo errore vengono espulsi. Se sei cittadino americano, anche se commetti un reato, devi solo pagare il tuo debito con la giustizia, ma se sei un immigrato vieni immediatamente cacciato”.
Prosegue Pitts: “Donald Trump è l’esempio più evidente e triste di questo odio per gli stranieri, ma le stesse cose accadono anche in Europa. La paura degli emigranti è ovunque. Io non penso che le persone vogliano lasciare la propria terra a cuor leggero, lo fanno solo se hanno dei motivi gravi e terribili. Oggi in Europa c’è chi parla di invasione, perciò è importante fare film su questo argomento. Spero che ci sia una presa di coscienza anche grazie al cinema”.
Pitts cita tra i suoi modelli cinematografici Kubrick e Pasolini. “Ma più di tutti ammiro John Cassavetes, anche se non saprei mai fare cinema come lui. E’ un mistero come riuscisse ad andare al di là della realtà restando realistico. In comune, tutti i miei registi preferiti, hanno una cosa: riescono comunque a restare se stessi, spero di farcela anch’io”.
In ultimo una considerazione sul fatto che nel film si vede l’incontro tra due personaggi che si chiamano Jesus e Maometto. “Sì, voleva essere ironico, non dimenticate che sono iraniano. E poi è un modo per puntare il dito contro l’assurdità di tutte le guerre di religione”.
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