Lacrime e risate in dosi uguali alla proiezione, fuori concorso, del nuovo film di Radu Mihaileanu, l’autore di Train de vie e Vai e vivrai, nato a Bucarest, nel ’58, ma espatriato a Parigi per sfuggire alla dittatura di Ceaucescu. Al Festival di Roma ha portato Le Concert, coproduzione francese che coinvolge anche l’italiana Bim. Una commedia che parte in un certo senso come Full Monty,con l’idea di una bizzarra riscossa per un manipolo di sfigati. C’è infatti un grandissimo direttore d’orchestra caduto in disgrazia negli anni di Breznev, tanto da diventare l’addetto alle pulizie del Bolshoi, mentre sua moglie si barcamena trovando comparse per matrimoni, funerali e manifestazioni politiche nella Russia di oggi, dominata dalle nuove mafie del denaro facile. Andrei Filipov, il maestro, sogna di tornare sul podio almeno una volta e l’occasione sembra arrivare quando nell’ufficio del direttore del Bolshoi intercetta un fax del Théatre du Chatelet: è un invito ufficiale per un concerto fuori programma. Andrei va a cercare i suoi musicisti di un tempo, che ormai si arrabattano come possono – c’è chi guida il taxi e chi vende telefonini taroccati – e sono più dediti alla vodka che allo spartito. Molti di loro sono ebrei ed è appunto per averli difesi, trent’anni prima, che il maestro si è visto accusare di essere un nemico del popolo e scacciare nel bel mezzo del Concerto per violino e orchestra op 35 di Caikovskij. Ed è proprio al funzionario del PCUS di allora che chiederà una mano, ovvero fingersi l’impresario della raffazzonata orchestra e organizzare la trasferta francese. Ma appena arrivati a Parigi, dopo mille equivoci e contrattempi (basti dire che i sessanta orchestrali arrivano all’aeroporto di Mosca a piedi) la vicenda prende tutt’altra piega, decisamente romantica e molto in linea con il brano sinfonico scelto come architrave del film. “Qualcuno storcerà la bocca – dice il regista – quegli intellettuali che non amano Caikovskij perché considerano le emozioni come qualcosa di volgare, ma per me quel concerto è l’immagine dell’anima slava, e nel dialogo tra l’orchestra e il violino trovo una perfetta metafora del rapporto tra Filipov e la giovane violinista francese (Mélanie Laurent, nel cast di Bastardi senza gloria)”. Del resto di quel concerto, un critico dell’epoca (1878) scrisse: “Alla fine del primo movimento il violino non suona, bensì raglia, stride, ruggisce. Anche l’Andante inizia felicemente, ma ben presto si trasforma nella descrizione di una qualche festa russa selvaggia dove sono tutti ubriachi e hanno volti triviali, disgustosi”.
Una commedia come riscatto contro le dittature e i soprusi della Storia sull’individuo?
Sì, perché l’ironia è la sola arma contro la barbarie per chi, come me, è un non violento. I dittatori, da Stalin a Ceaucescu, hanno segnato la mia vita e quella dei miei amici. Ma abbiamo vinto noi, perché siamo ancora vivi e non siamo stati stroncati nello spirito.
Come ha fatto a calarsi nell’anima russa?
Sono stato a lungo a Mosca, con lo sceneggiatore, e abbiamo raccolto tante storie, che a volte sono più folli e strane nella realtà che nell’immaginazione. Siamo stati a casa di queste persone decadute, umiliate dal regime sovietico, abbiamo parlato con loro, poi abbiamo raccontato tutto cercando però di non essere nostalgici, di non dare troppo spazio al passato. Devo anche dire che il mio paese, la Romania, è l’incrocio di tre imperi, russo, ottomano e austroungarico, in noi ci sono tutti gli spiriti, e sicuramente quello slavo, pieno di energia vitale. E’ uno spirito che condivido pienamente.
Il pubblico russo si è sentito in qualche modo preso in giro dalla sua rappresentazione di certe debolezze, di un’arte di arrangiarsi e di una passività quasi infantile, o di una tendenza un po’ truffaldina…
Quando, due settimane fa, abbiamo proiettato Le Concert a Mosca, temevo la reazione della gente, anche se io adoro questi personaggi che sembrano non contare niente e invece sono eroi, e dèi. Però gli spettatori hanno capito, hanno applaudito e si sono commossi. Anche alla battuta che dice: “I russi sono come muli, per farli andare avanti, ci vuole un colpo sulla testa”.
Come ha scelto il protagonista, Aleksei Guskov?
Ero a Mosca, per il casting, e continuavano a presentarmi attori che io non conoscevo dicendomi che erano delle grandi star in Russia. Mi hanno detto lo stesso anche di lui, e in questo caso è vero, è paragonabile a Gérard Depardieu e Sergio Castellitto.
Il film è stato venduto all’estero senza problemi?
E’ stato venduto ovunque, tranne che in Russia e Ucraina, proprio per timore che non piacesse ai russi vedersi rappresentati da uno straniero. Uscirà anche negli Stati Uniti, dove l’ha acquistato Harvey Weinstein e in Francia, dove ci sarà un’anteprima proprio al Teatro Chatelet di Parigi.
Nei suoi film c’è sempre qualcuno che corre.
Forse perché ho a disposizione una vita soltanto e so che il tempo passa in fretta, per questo vado veloce. L’Occidente è ricco, ma dorme un po’, l’Est ha questa vitalità barbarica.
E’ buffo vedere l’impresario comunista raccomandarsi a Dio, in cui non crede, per la riuscita del concerto, e trovare una risposta positiva. Questo film potrebbe avere anche una lettura religiosa?
Non lo so, non so se sono religioso nel senso classico del termine, ma mando spesso messaggi a Dio, anche se lui non mi risponde. Io credo molto nell’energia e credo che ci sia uno scambio permanente di energia tra le cose e tra gli esseri umani. Sono ebreo, ma leggo il Corano e mi interesso al buddismo e al taoismo. Forse perché sono un timido che fa film per avere un passaporto per avvicinare le altre persone.
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