TRIESTE – Il nome di Rade Šerbedžija fa tornare quasi istintivamente alla memoria Prima della pioggia, il film di Milcho Manchevski Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1994, in cui l’attore croato di origini serbe interpretava un fotografo che prova sulla propria pelle le lacerazioni inflitte dal conflitto dei Balcani. Ma la sua carriera, che al di là del cinema si estende anche al teatro, alla musica e alla poesia, è lunga e sfaccettata. Lasciato il suo Paese dopo la guerra, Šerbedžija ha lavorato moltissimo all’estero, sia in Europa che a Hollywood, nel cinema d’autore e in produzioni ad alto e altissimo budget. In Italia ha girato con Giuseppe Bertolucci, Francesco Rosi, Andrea Segre e, più di recente, nell’esordio di Antonio Padovan Finché c’è prosecco c’è speranza. Ma nella sua filmografia si incrociano i nomi di John Woo (Mission: Impossible II), Clint Eastwood (Space Cowboys), Guy Ritchie (Snatch – Lo strappo), David Yates (Harry Potter e i doni della morte – Parte I) e soprattutto di Stanley Kubrick, con cui l’attore ha lavorato per tre mesi sul set dell’ultimo film Eyes Wide Shut.
Trieste Film Festival, alla sua 29esima edizione, gli rende omaggio con l’Eastern Star Award 2018, riconoscimento attribuito a una personalità del mondo del cinema che con il suo lavoro ha contribuito a gettare un ponte tra l’Europa dell’est e dell’ovest. Il premio – come spiegano i direttori del festival Nicoletta Romeo e Fabrizio Grosoli – “vuol essere un riconoscimento, oltre che alla carriera artistica, anche all’impegno civile di una persona che si è sempre distinta per le posizioni apertamente e coraggiosamente antibelliche e per non essere mai scesa a compromessi”.
Rade Šerbedžija, ha cominciato a interessarsi alla recitazione fin da molto giovane. C’è qualcosa che ha imparato all’inizio della carriera e che oggi vorrebbe raccontare a chi è intenzionato a seguire i suoi passi?
Non si finisce mai di imparare: questa è la lezione. Quando ero un giovane attore, avrò avuto 27 o 28 anni, avevo appena finito di recitare in una importante produzione dell’Amleto a Dubrovnik. Si diceva che non fossi stato un cattivo Amleto. Allora il mio professore di recitazione all’Accademia di Arte drammatica di Zagabria mi chiese di andare a insegnare da lui. Ero stupito: “Io, a insegnare? Ma non so nulla, non ho abbastanza esperienza, non posso farlo”. E lui mi rispose: “Non ti sto chiedendo di venire a insegnare, ma di venire a imparare”. Mi piace molto lavorare con i giovani, perché con loro si impara sempre qualcosa. Come diceva Socrate, “il migliore insegnante è quello che sa di dover imparare”. E io sto ancora imparando. Anche perché ho avuto la fortuna di lavorare con grandi registi.
A proposito di grandi registi, nella sua carriera ha incrociato Stanley Kubrick. Ha lavorato con lui per tre mesi sul set del suo ultimo film Eyes Wide Shut. Cosa può dirci di quella esperienza?
Che quella che abbiamo visto, non sarebbe stata di certo la versione definitiva del film. Quando Kubrick terminò la prima versione del montaggio, la mandò subito a Tom Cruise, che si trovava a New York in quel momento. Io all’epoca vivevo a Londra e ricordo una sua telefonata che mi svegliò nel cuore della notte. Tom ci teneva a dirmi quanto fosse colpito da ciò che aveva visto. Disse che era un film fantastico, incredibile. E poi mi raccontò di averne già parlato con Stanley, al quale aveva detto le stesse cose. Ma lui ridendo lo gelò: “Ragazzi, questo è solo l’inizio. Abbiamo appena cominciato”. Ma sette giorni dopo morì. E questa è la storia del film. Non era la versione definitiva e ci siamo anche chiesti se fosse il caso di metterci le mani, lavorando con qualcuno dei suoi montatori a un nuovo taglio. Ma alla fine si decise di lasciarlo così: il “first cut” di Stanley.
Il suo rapporto con il cinema italiano?
Importante. Ho lavorato con diversi registi italiani, alcuni anche giovani. A uno di loro sono molto legato, Ferdinando Vicentini Orgnani, con cui abbiamo girato un film su Ilaria Alpi. Giovanna Mezzogiorno faceva la parte di Ilaria, io recitavo nel ruolo di Miran Hrovatin, il cameramen che è stato ucciso insieme a lei a Mogadiscio. Ho girato un film con Giuseppe Bertolucci Il dolce rumore della vita, un altro con Francesco Rosi, La tregua. Un’esperienza fantastica e lui è stato uno dei più grandi registi al mondo. Poi, qualche fa, ho lavorato a un bellissimo film di Andrea Segre, Io sono Li. Il film è stato presentato a Venezia alle Giornate degli autori, e ricordo che un sacco di gente, dopo la proiezione, tra cui molti critici e giornalisti, sono venuti da me arrabbiatissimi dicendo: “Ma com’è possibile che un film italiano come questo non sia in concorso?” Devo dire che anch’io ero piuttosto sorpreso.
Sta lavorando a qualche nuovo progetto?
Sì, sto lavorando a un nuovo progetto ma per scaramanzia preferisco non parlarne. Una volta mi è capitata una cosa: credo che fosse il 2002 o giù di lì. Dovevo cominciare a lavorare a un film di Phil Alden Robinson, una grossa produzione che doveva intitolarsi “Age of Aquarius”. Anche Harrison Ford e Kristin Scott Thomas erano stati scritturati. Avremmo dovuto cominciare a girare entro pochi giorni, erano già stati spesi dieci milioni nella pre-produzione. Ebbene, credo che fosse venerdì, c’era sicuramente un weekend in mezzo, prima di cominciare le riprese. Sabato Phil ebbe un incontro con Harrison Ford e il suo manager. Ford si era impuntato su una scena ambientata a Sarajevo che avrebbe voluto girare, ma Phil rispose che non avrebbe potuto partecipare a quella scena perché il suo personaggio si trovava in Marocco allo stesso tempo e questo avrebbe creato problemi di continuità alla storia. Ford insistette, ma Phil rifiutò e allora l’attore abbandonò la produzione. Lunedì stesso Phil si mise a cercare un altro interprete, ma nonostante tutti tentativi fallì. C’è una regola implacabile che vige a Hollywood: se qualcosa va storto, si butta via tutto. Letteralmente fuori dalla finestra. Non importa quanto ci rimettono. Ecco perché non voglio dirle che sto per cominciare un nuovo importante progetto, una serie televisiva, a Los Angeles, che dovrebbe partire il 5 febbraio. (ride)
La sua carriera è molto eclettica. Ha lavorato per il cinema, per il teatro, la televisione. Persino come poeta e musicista. In quale di questi ambiti si sente più a suo agio?
Forse come attore di teatro. Anche se avevo già lavorato nel cinema da giovane, credo di essere diventato veramente un attore cinematografico a quarant’anni, in particolare quando ho girato Prima della pioggia. È una cosa a cui penso spesso e mi chiedo perché sia capitato. Credo che alla mia generazione, alle persone che come me sono nate dopo la seconda guerra mondiale, sia mancata in qualche modo un’esperienza importante, di quelle che ti segnano. Cambia tutto quando vivi la guerra in prima persona. Una cosa è recitare, fare finta di essere in guerra, un’altra cosa è farne parte, vederla coi tuoi occhi. Da giovane ero superficiale, pensavo che mi fosse mancata questa esperienza per poterla interpretare in modo convincente. Un’idiozia. E naturalmente non intendevo dire che una guerra fosse necessaria. Tutt’altro. Sono stato sempre un pacifista convinto, per tutta la vita. Ma c’è un fondo di verità. Dopo tutte le cose che sono successe nel mio paese, la mia anima è cambiata, il mio sguardo è cambiato. I miei amici morivano, io stesso ho rischiato più volte la pelle per la mia militanza antibellica. Ho protestato attivamente contro Milosevic, Tudjman, Izetbegović, perché ai miei occhi erano tutti uguali, ma anche contro le grandi potenze, l’America, l’Inghilterra, la Germania, magari non l’Italia. Sono esperienze che ti cambiano per sempre, non puoi rimanere indifferente. Diventi un testimone del tempo che stai vivendo.
A questo proposito, cosa pensa dell’ondata di nazionalismi che investono nuovamente l’Europa?
Penso che stiamo vivendo uno dei periodi più bui della Storia. Se non è ancora scoppiata la Terza Guerra Mondiale è solo per la minaccia delle armi nucleari, tutti sanno che distruggerebbero il mondo. Ma non si può essere certi che ciò non accada in futuro. Che i tre o quattro leader mondiali non decidano di giocarsi il destino dell’umanità in un’ultima partita a poker. Ritengo che ci sia più di una ragione per avere paura.
Quest’anno Trieste Film Festival celebra il 50° anniversario del ’68. Lei come ha vissuto quegli anni?
A quei tempi stavo girando un film in Slovenia, Sedmina di Matjaz Klopcic. Perciò non ho preso parte alle manifestazioni studentesche, non ero in strada a protestare perché ero impegnato sul set. Ma ricordo bene quel periodo e le cose che volevamo. Avevamo vent’anni, eravamo pieni di illusioni, chiedevamo più diritti, maggiore libertà. Volevamo che alcune cose nel nostro paese cambiassero, ed era giusto così. Anche se Tito aveva rotto con Stalin e per questo abbiamo avuto la fortuna di vivere in un Paese dove la dittatura non era rigida come in altri paesi, c’erano comunque molti problemi. Tito ci aveva traditi. Aveva fatto molte promesse che poi non ha mantenuto. La stagione rivoluzionaria del ’68 è finita e forse solo in campo artistico è successo qualcosa. La cosa che più mi ha deluso, comunque, è che molti dei giovani rivoluzionari dell’epoca, sono poi diventati esponenti del peggior nazionalismo negli anni ’90.
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