Will Wilder è un bravo attore, costretto però in un ruolo frustrante: quello di coniglietto della sfortuna di uno show televisivo per bambini. Inoltre, pare che la sua famiglia e io suoi amici si siano completamente dimenticati del suo 40° compleanno. Comprensibilmente depresso, Will si trova però di fronte a un’incredibile occasione. La sua macchina viene rubata e ritrovata dopo un terribile incidente. Tutti lo danno per morto. Così, Will decide di realizzare un suo vecchio desiderio: recarsi al proprio funerale per scoprire cosa pensano veramente i suoi cari di lui. Con la complicità del suo migliore amico Rad, un ristoratore indiano, si traveste e diventa Vijay Singh, un distinto e galante Sikh, completo di barba e turbante.
Incredibilmente, la moglie di Will, Julia, comincia a provare un certo interesse per l’affascinante straniero e Will, protetto dal suo stesso travestimento, in pochissimo tempo si trova a corteggiare la propria vedova. Nei panni di Vijay, Will inizierà a conoscere delle verità imbarazzanti su di sé e si troverà a confrontarsi con un problema: essere Vijay gli piace molto di più di quanto si sia mai piaciuto essere Will.
Dopo la prima mondiale al Festival di Locarno, Vijay, il mio amico indiano di Sam Garbarski, interpretato da Moritz Bleibtreu e Patricia Arquette, arriva in sala con Officine Ubu il 13 febbraio, in tempo per San Valentino. “Se chiedete alla gente se vorrebbe a partecipare al proprio funerale – dice il regista, al suo terzo lungometraggio dopo il grande successo di Irina Palm – quasi nessuno direbbe “oh, si!”. Mi sembrava che quest’idea potesse costituire una base divertente da cui sviluppare una storia, tra realtà e fantasia. E’ un tema tanto umano quanto universale, pieno di sogni, un’incredibile base di partenza per la sceneggiatura di un film. Per anni mi sono divertito annotando idee divertenti, a volte assurde, ma molto adatte al tema scrivendo e riscrivendo la storia. L’autoironia è il mio rimedio universale contro tutti i più piccoli e i più grandi problemi della vita. Sin dalla mia prima infanzia l’umorismo mi ha aiutato ad affrontare le prove della vita. Sicuramente, è in parte genetico, umorismo ebreo da “Schtetl” (Europa Centrale). Ma consciamente, sono Laurel e Hardy e, prima di tutti, Charlot che mi hanno insegnato a ridere e piangere davanti alla grandi sventure della vita. Poi Lubitsch e Wilder arrivarono nella mia vita con il loro umorismo ebreo, tedesco e americano. Dopodichè scoprii da alcuni film neorealisti italiani, specialmente quelli di Dino Risi e Vittorio de Sica, l’autocritica, il tipo più nobile di umorismo. E’ diventata la mia ricetta miracolosa contro ogni problema. Cerco automaticamente il lato divertente, assurdo o inaspettato per distrarmi, cercare una soluzione, evitare la depressione o tutte queste cose insieme. Guardo questi film ancora e ancora, con un piacere fisico che non è mai diminuito. L’umorismo semplice di molte commedie oggi crea l’illusione di una risata spontanea, ma esse non mi portano mai a provare una sensazione di benessere. Coscientemente o meno, questi film e i loro registi mi hanno ispirato durante la stesura del copione e durante le riprese. Paradossalmente fare una commedia non è la cosa più semplice da fare in un film. Volevo che “Vijay, il mio amico indiano” fosse divertente in un modo sottile ed elegante. E volevo che fosse anche il più realistico possibile, quindi spero di avergli dato anche un certo tocco drammatico. Per me dramma e umorismo non sono solo molto vicini, sono sposati e non possono divorziare”.
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