‘Quando’, Marcorè: “Berlinguer ci mancherà sempre, a prescindere da come la si pensi”

Il film di Walter Veltroni - in Concorso al Bif&est - con Valeria Solarino nel ruolo di suor Giulia: dai funerali di Berlinguer un black out mentale del protagonista. Dal 30/3 al cinema


BARI – Roma, San Giovanni, funerali di Enrico Berlinguer, estate 1984. L’asta di una bandiera colpisce la testa di Giovanni (Neri Marcorè): il coma per 31 anni, fino al risveglio, una rinascita. Un mondo cambiato, un mondo passato che non esiste più: così come il PCI, il partito amato, stravolto.

Walter Veltroni, dalla propria opera letteraria omonima, Quando, presenta il film in Concorso al Bif&st.

Giovanni a cinquant’anni è quasi come un bambino che impara a prendere confidenza con le cose del mondo, compresa la dimensione temporale e affettiva del passato. Il nuovo mondo di Giovanni è abitato da Giulia (Valeria Solarino), suora giovane e tormentata che l’ha curato negli ultimi anni di coma; accanto a Giovanni anche Leo (un convincente Fabrizio Ciavoni), ragazzo problematico affetto da mutismo selettivo. Sono Giulia e Leo gli strumenti umani con cui Giovanni impara a ri-vivere – le macchine gli sembrano “astronavi” e scopre il navigatore, così come Tripadvisor – ma il tempo precedente è esistito, e Giovanni si trova ad affrontalo anche con Francesca (Dharma Mangia Woods), la figlia avuta nella sua precedente vita.

Neri, non è la prima volta che si misura con l’aldilà e l’aldiquà, indimenticabile il suo Michele di Tutti Pazzi per Amore. Giovanni sta in bilico tra un tempo (passato) e un altro (presente), e gli si chiede di mettere in campo la memoria fattuale e emotiva: come ha lavorato per costruire empatia con questo status quasi distopico?

La Storia che è scorsa mentre lui dormiva la dovevamo raccontare per associazione ai vari personaggi, quello di Suor Giulia e di Leo, così succede sia esterrefatto anche creando momenti divertenti, come rispetto al navigatore satellitare che parla. Per il lavoro su un uomo rimasto fermo a 31 anni prima, c’è il paradosso che mentalmente, dal punto di vista intellettivo, avesse 18 anni, mentre fisicamente 50: bisognava restituire un po’ di candore, innocenza, quelle di un diciottenne degli Anni ’80. E per certe scene mi sembrava giusto metterci un atteggiamento di protesta che non fosse proprio maturo, con esternazioni che prevedessero un tono lamentoso o capriccioso, come quando lui scopre di avere una figlia e che il nuovo compagno della fidanzata di allora è il suo migliore amico, per cui non ha una reazione molto adulta. C’era un passare da una dimensione all’altra, era una sfida, che mi allettava molto: l’intento era proprio di passare dall’atteggiamento di un maturo a quello di uno più giovane, perché la mente lo portava da un’altra parte.

Nel suo mestiere non è nuovo nemmeno al confronto con i disturbi della mente, come per esempio in E poi c’è Filippo, sul tema dell’Asperger: qui c’è l’incontro con Leo. Per costruire Giovanni s’è confrontato con il mutismo selettivo? E poi con Ciavoni com’è andata la dinamica di coppia?

 Oltre a Filippo, ricordo anche il Pino di Sei mai stato sulla luna? In questo caso, per Quando, non era però il mio personaggio a dover essere un muto selettivo e inoltre era già scritto tutto: le sceneggiature che funzionano non hanno bisogno di lavoro integrativo; è ovvio che, invece, nel caso di E poi c’è Filippo mi preparai studiando dei testi scientifici o Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte: più che altro fu fondamentale l’incontro con un ragazzo, Giacomo, che mi aveva scritto, e che ho incontrato, incontro che mi ha permesso di capire molte più cose che dai libri. Quindi, un po’ quel mondo lo conosco grazie a lui: in questo caso è una commedia e il mutismo selettivo serve a mostrare come Leo con me entrasse in comunicazione, mentre con altri no; dovevo pormi in maniera diversa dalla sua dottoressa, verso cui lui non ha pazienza e si rifiuta di parlare. Io gli parlavo come a un coetaneo, se poi mi rispondeva bene, altrimenti non faceva differenza. C’era certo il tentativo di farlo venir fuori anche solo con il pretesto dell’apertura di un barattolo. È stato bravo lui a interpretare questo tipo di personaggio.

Qual è il suo personale rapporto col tempo che passa?

 È una brutta bestia. Quest’anno compirò 57 anni, da una parte non me li sento, dall’altra li vedo e forse soltanto da poco tempo ho preso coscienza che davanti ho sicuramente meno tempo di quello indietro, è una cosa che ho sempre saputo, letto, visto nei film, però un altro conto è la consapevolezza della condizione di avvio verso la terza età. Bisogna prenderci le misure, confesso che anche se sto bene, la salute c’è, però il tempo che passa – da qualche tempo – ‘ha preso una sedia e s’è seduto al mio tavolo’, quindi ci sto facendo pian piano i conti. Ogni età regala gioie e dolori, per dirne una non tornerei mai al periodo dell’adolescenza, momento tremendo: hai tutta la vita davanti ma è un’età difficile.

E invece con la memoria?

È fondamentale quella storica, su chi siamo come comunità, come società, come famiglie, come gruppi di amici. Per me sono molto importanti le cose successe in passato a livello sociale. Per il mio rapporto con me stesso, del passato non ho rimpianti e non ho l’abitudine di guardare indietro come a una stagione meravigliosa, mentre quella davanti percepirla come triste e incerta: cerco sempre di essere sul presente, cercando di fare progetti verso il futuro. L’incognita del futuro è sempre più interessante di un passato interessante, bello e soddisfacente.

La visione personale di questi temi – tempo e memoria – ha concorso nella creazione di Giovanni?

 Un po’ sì, perché Giovanni è coetaneo mio: nell’ 84 avevo 18 anni, e pur non avendo la stessa storia di Walter Veltroni, che ha cominciato a interessarsi di politica molto prima di me, in casa mia comunque si parlava di politica in maniera più dogmatica, si approfondivano certi temi, di cui ho cominciato a interessarmi proprio in quegli anni, non prima. L’ammirazione che poi ho sviluppato strada facendo per Berlinguer è stata più o meno quella di Giovanni: pur apprezzandolo moltissimo in quel presente, con la consapevolezza del dopo apprezzi ancor di più certe figure che capisci fossero giganti, soprattutto se confronti col modo di vivere e della politica di adesso; c’era una preparazione culturale, un senso dello Stato, una visione d’insieme che andava ben oltre il consenso mordi e fuggi del tornaconto elettorale. Berlinguer ci mancherà sempre, a prescindere da come la si pensi.

Giovanni fa un discorso sulla felicità, quando si presenta all’esame di maturità: come ha riflettuto sul concetto per interiorizzarlo e poi esteriorizzarlo nell’interpretazione?

Non ho fatto fatica a dire quelle cose perché le penso. Se c’era semmai un rischio era quello della retorica ma penso sia stato messo da parte, perché il modo con cui Veltroni aveva impostato le scene, il confronto sulla resa, prescindeva dalla voglia di essere retorici, ma tendeva alla semplicità, per far parlare il cuore. Come Giovanni, penso che la felicità non possa prescindere da un percorso personale, innestato però in un discorso sociale: non si può essere felici pensando solo a se stessi. Quindi non è peccato, come dico nel monologo, sperare in un mondo in cui si possa stare insieme senza sospetti, solo con un tornaconto condiviso con tutti gli altri; in questo senso mi va di associare questa riflessione a un altro dei miei riferimenti culturali, Gaber: c’è il finale del brano Qualcuno era comunista che più o meno dice una cosa del genere, lì da una parte c’era la fatica quotidiana personale di chi lavora e a che fare con i propri sogni e i proprio limiti, ma al tempo stesso c’erano come delle ali che ti permettevano di pensarti anche più di quello che eri, nella dualità dell’essere sociale e dell’individuo.

Ha citato Gaber e lei, si sa, ha una personale sensibilità per la musica. Nel film non ci sono specifici riferimenti musicali per Giovanni, ma lei s’è fatto accompagnare da una sua colonna sonora per creare il personaggio?

No, ma è strano in effetti a pensarci adesso. Non ho pensato a una colonna sonora, mentre nella mia vita la musica è stata fondamentale, sempre. In questo caso in sceneggiatura non era prevista che fosse un riferimento o che lui proponesse delle cose, che è strano effettivamente, mentre forse nel libro c’è una scena in cui tira fuori un walkman e delle cassette, così ci sarebbe potuto essere un capitolo dedicato. Io, in quel 1984, preparavo l’esame di maturità ascoltando in cuffia due musicassette con l’autoreverse, una era Baglioni e l’altra il concerto a Central Park di Simon & Garfunkel: potevano essere una sua possibile colonna sonora, ma poi anche Bennato, De Gregori, molto i cantautori italiani, che io consumavo molto. È anche vero che il film si svolge nel 2015, ma se ci fosse stato un capitolo sul pre-coma mi sarebbe piaciuto contribuire con questi brani. Una menzione musicale però è per Mauro Pagani, che ho l’onore di poter considerare un amico da Boys di Davide Ferrario, e sono felice di aver ritrovato in questa occasione, anche se non abbiamo lavorato direttamente, ma il suo tocco si sente in tutte le musiche originali che accompagnano il film.

Nella storia anche Flavia (Olivia Corsini), la fidanzata del tempo – e mamma di Francesca -, ora compagna di Tommaso (Gianmarco Tognazzi). Inoltre, il professor Coco (Ninni Bruschetta), il medico dinnanzi a cui s’è svegliato Giovanni, dottore che sfrutta l’occasione per un iper presenzialismo mediatico.

Quando esce al cinema dal 30 marzo.

 

Nicole Bianchi
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