Dopo l’esperienza cinematografica ed editoriale di La seconda notte di nozze, uno dei più prolifici registi italiani, Pupi Avati ritenta l’esperimento adattando per il grande schermo un romanzo breve scritto da lui. Di tutt’altro tipo lo spunto della vicenda e non poteva essere altrimenti visto che la storia è stata inventata da un cineasta che si è cimentato in quasi tutti i generi se si esclude il filone hard per il quale, come ha precisato nella conferenza stampa di stamane, non prova “nessuna curiosità”. Archiviate per il momento le atmosfere da commedia e i paesaggi della sua Emilia, ne Il nascondiglio Avati ci racconta una vicenda in bilico tra thriller e horror, atmosfere da lui definite gotiche e già usate per film come La casa dalle finestre che ridono, Zeder e L’arcano incantatore.
Siamo nel dicembre del 1957 e una piccola comunità dell’Iowa, stato del Midwest americano, viene sconvolta da un efferato delitto avvenuto in una grande casa isolata durante una tormenta di neve. Col passare del tempo la gente tenta solo di dimenticare, ma cinquant’anni dopo una donna di origini italiane sceglie proprio quella casa per aprire un ristorante e rifarsi una vita dopo il suicidio del marito e le lunghe cure in istituti psichiatrici. Sarà lei a costringere la cittadina a fare i conti con una verità che fa ancora paura a molti. Prodotto da Rai Cinema insieme alla Duea Film che proprio stamattina ha firmato un accordo con la Mediocreval, società del Gruppo bancario Credito Valtellinese, che entra nella casa di produzione dei fratelli Avati al 15%, e distribuito da 01, Il nascondiglio è interpretato da Laura Morante, Rita Tushingham, Treat Williams, Burt Young e Yvonne Brulatour Sciò e uscirà in sala in 200 copie il 16 novembre.
Da dove ha preso spunto per la trama?
E’ stato tanto tempo fa mentre facevo i sopralluoghi per Bix, un’ipotesi leggendaria, il film sul cornettista Leon Beiderbecke. Era il 1990 ed eravamo a Davenport nell’Iowa e c’era una casa spettrale e pericolante che il nostro accompagnatore, un abitante del posto, ci raccontò essere stato teatro dell’omicidio commesso da due minorenni e che anni dopo una donna italiana aveva deciso di acquistare per trasformarla in un ristorante. Feci qualche ricerca su di lei scoprendo che si trattava addirittura di una bolognese ricoverata per anni in una casa di cura del Wisconsin in seguito al suicidio del marito. Ma tornato in Italia dimenticai la faccenda e i miei appunti in un cassetto. Solo due anni fa ci ho ripensato incontrando a cena un appassionato del Midwest che conosceva la storia e la sorella di quella donna.
E’ mai riuscito a parlarle?
Non direttamente: una volta avuti i suoi recapiti le ho mandato email, e almeno 6 lettere, ma lei ha risposto solo una volta. Il contenuto della lettera è nella postfazione del mio libro (ed. Mondadori, pp 124).
Com’è stato lavorare tra Cinecittà e gli Stati Uniti e come ha pensato a scritturare Laura Morante?
A Cinecittà mi trovo bene. Le maestranze sono sempre all’altezza del compito, peccato che quest’esperianza venga sfruttata da pochi. Ho girato lì gli interni dei miei ultimi 5 film ed eravamo sempre e solo noi a fare cinema. Il resto degli studios è diventato Telecittà invaso com’è dalla tv tra trasmissioni e reality. In America non abbiamo mai problemi, sia io che Antonio siamo molto legati all’Iowa. Ha dei paesaggi che ricordano la nostra Emilia, e poi anche noi abbiamo tentato di aprire un ristorante da quelle parti, purtroppo con scarsi risultati. Quanto a Laura credo di aver scelto bene. Mi serviva un’attrice di talento ed esperienza che riuscisse da sola a tenere in piedi tutta la storia e che non avesse difficoltà con le lingue straniere, visto che il film è girato in inglese.
Recentemente si è detto sorpreso di non essere stato contattato dai CentoAutori. Si sente trascurato?
No, dico solo che è un mistero però che un autore con 34 film alle spalle non sia stato interpellato da un movimento così, mentre magari altri colleghi ne fanno parte pur realizzando poco cinema.
Che consiglio si sente di dare uno con la sua esperienza ai giovani registi?
Cimentarsi sempre in generi differenti aiuta a migliorare le grammatiche di regia. Ogni tanto poi resettarti, fare un film diverso ti aiuta a trovare nuovi stimoli per raccontare le storie a cui ti senti più legato, e ti fa ripassare i vecchi insegnamenti. Con Il nascondiglio mi sento come se avessi rinnovato la patente.
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