Pupi Avati: quell’amore coniugale non visto a Venezia


Squilla il cellulare. “Ciao, scusami sono in conferenza stampa. Sì va tutto bene, ci sentiamo dopo”. Pupi Avati risponde gentile alla moglie, che lo ha interrotto mentre affronta le domande dei giornalisti. Lei è “la signora con la quale litigo ogni giorno da 46 anni”, una storia d’amore radicata e mutata nel tempo che il regista in fondo omaggia con questo film Una sconfinata giovinezza, in uscita con 01 Distribution (200 copie) dall’8 ottobre.
Perché la malattia di Alzheimer, che colpisce il giornalista sportivo Lino (un convincente e misurato Fabrizio Bentivoglio) e coinvolge la moglie Chicca (una Francesca Neri dai capelli grigi) più che il cuore del film è l’elemento che scatena una toccante storia d’amore di coppia. Un amore coniugale che, messo a dura prova dall’improvviso affacciarsi del morbo, si trasforma in amore materno. E allora il paradosso di Francesca che si ritrova accanto, con Lino malato, quel bambino, quel figlio che non ha mai avuto.
Tornano con prepotenza in Una sconfinata giovinezza gli elementi autobiografici del regista: la perdita del padre in un incidente automobilistico, la zia Amabile che lo ospitò nella casa di campagna, l’Appennino bolognese, gli amici Leo, Nerio e Leda che lo iniziarono al sesso, il cane Perché. Sono le radici di molto cinema di Avati, ed è proprio in quella terra d’origine, in quella stagione di vita indimenticabile, che si rifugia il nostro Lino, terribilmente dimentico dell’oggi e così proiettato nel passato, ritrovando quella giovinezza dalla quale mai più si staccherà.
Nel cast, oltre all’appena scomparso Vincenzo Crocitti, troviamo Lino Capolicchio, Serena Grandi, Gianni Cavina, Manuela Morabito e Erica Blanc.

Il suo film è rimasto fuori dal Concorso di Venezia 67, ha visto gli altri titoli in gara?
No, per la semplice ragione che non vado al cinema. Comunque ho metabolizzato quanto accaduto, c’è ben di peggio nella vita di un regista. Certo allora ho provato sofferenza e stupore, sono rimasto sbigottito, ma è finito tutto lì.

 

Perché mette in scena il morbo di Alzheimer?
La ragione per cui mi occupo di questa patologia sta nel mio rapporto con il tempo. Quello di una persona che, vivendo la seconda parte del secondo tempo della propria vita, dismette la nostalgia per la propria giovinezza che ha alimentato i miei film, i quali guardano con affettuoso rammarico al passato per averlo vissuto con troppa precipitazione. Ora faccio un passo ancora più indietro e questa forma di regressione riguarda la nostalgia per la mia infanzia, tant’è che questo film avrebbe potuto intitolarsi Una sconfinata infanzia. Dentro di me si agita quel bambino di 8/10 anni che sono stato e che pensavo di aver tacitato, soprattutto dimenticato.

Come mai ha scelto di far coincidere malattia e amore?
Mi sono incuriosito nei confronti di questa patologia, quando a casa nostra ci siamo accorti che mio suocero cominciava a confondere il presente con il passato, e ciò si manifestava con un’innocenza e un nitore nei riguardi del passato che non aveva più sicuramente verso il presente. Ho studiato così la patologia e mi sono consultato con gli esperti. E alla fine mi sono detto che era giunto il momento di raccontare una grande storia d’amore, avevo il pretesto narrativo per farlo. E non è soltanto l’amore tra un uomo e una donna, tra un marito e una moglie, ma può anche trasformarsi nell’amore tra una madre e un figlio.
Del resto qualsiasi medico, in casi del genere, dovrebbe prescriverti, oltre alle medicine, l’amore. Tanto più nella nostra società dove si abbandonano non solo i cani, ma anche i parenti.

Un’opera la sua, per il tema affrontato, controcorrente nel panorama italiano.
A parte il fatto che il cinema americano si nutre di patologie, comunque questo mio film certo non è parte di quel cinema nazionale, fatto di comicità e commedia, premiato al box office e che il nostro pubblico vuol vedere. Ecco spiegata la prudenza di 01 rispetto al numero di copie distribuite, anche se sono convinto che ci sia un bacino d’utenza interessato.

Il tema affrontato è scivoloso dal punto di vista drammaturgico. Come ha evitato il rischio?
Certo la materia si prestava, in ogni sequenza, a spingere sul lato emotivo. Abbiamo invece affrontato la storia con pudore interpretativo, cercando di sottorecitarla, di interiorizzarla il più possibile. Soprattutto per non speculare, sapendo che questo film si rivolge a un pubblico che in gran parte ha vissuto o vive esperienze come quella raccontata. Il morbo dell’Alzheimer è chiamato ‘la malattia dei parenti’ e io a queste persone non voglio aggiungere disperazione a disperazione, semmai dire che lo si può accogliere nella propria vicenda umana, certo soffrendone. I miei consulenti mi sono stati riconoscenti, dicendo che si tratta di uno sguardo in qualche modo di vicinanza con chi vive questo dramma. Non ho allora voluto approfittare di questa condizione dolorosa benché avessi tutti gli elementi a disposizione, anche se il film resta struggente.

 

Perché nel film ha introdotto l’elemento della resurrezione?

In questa storia della mia infanzia l’ho voluto includere come evento possibile, perché in quella stagione magica, i bambini credono sempre che ci sia un altro bambino che possa resuscitare. E m’inteneriva tanto la vicenda di un adulto che va cercando la sua infanzia e quel bambino che può resuscitare la donna della sua vita. Mi affascinava questo andare e venire dentro il tempo, con un’impudenza che il cinema ti permette.

Perché ha voluto come protagonista un giornalista sportivo?
In scena c’è una famiglia tradizionale, la ‘famigliona’ nella quale tutti sono socialmente piazzati e tutti figliano, e nella quale si manifesta un corpo estraneo, un giornalista di calcio, grazie a un matrimonio disdicevole per una nucleo familiare così tradizionalista. E il giornalista vive e lavora con le parole, e privarlo di queste è condannarlo al silenzio.

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04 Ottobre 2010

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