Pupi Avati: “Fascismo quotidiano, oltre gli stereotipi”


Ancora una tragedia familiare con il secondo film italiano in concorso a Venezia, Il papà di Giovanna. Un dramma della gelosia che si consuma in una classe di liceo. Siamo nella Bologna del 1938, anno di nascita di Pupi Avati, ma tra le pieghe di quell’Italietta fascista e maschilista si celano echi delle cronache di questi giorni. “Fatti come quelli di Garlasco, Novi Ligure e Perugia mi hanno fatto riflettere – ammette il regista – mi sono chiesto che cosa succede in quelle famiglie quando i riflettori delle tv si spengono. Ho cercato di immaginare, mi sono documentato sui risvolti psichiatrici, così da una paginetta scritta molti anni fa sul rapporto morboso tra un padre e di una figlia, simili nella loro goffa bruttezza, è venuto fuori questo racconto”.

In sala dal 12 settembre distribuito da Medusa in 250 copie, il film ci porta all’interno di un appartamento piccolo borghese – identico a quello dove Pupi è nato e cresciuto in Via San Vitale 51 e ricostruito a Cinecittà – dove un oscuro professore di disegno (Silvio Orlando) vive con la moglie insoddisfatta (Francesca Neri) e la figlia diciassettenne, consegnata alla solitudine da un corpo impacciato e da un viso tetro, che in nulla rispecchia l’avvenenza della madre. La quale, sposatasi per bisogno, ha un debole per il vicino di casa  Sergio Ghia (Ezio Greggio), poliziotto e convinto fascista. Giovanna arriva a uccidere la sua unica amica per invidia, viene rinchiusa in manicomio criminale, ma il rapporto di amorosa e folle simbiosi col padre non si interrompe mai, neppure dopo l’8 settembre, quando si torna nonostante tutto a casa.

 

Il film dipinge un fascismo bonario, persino simpatico, affidato soprattutto al personaggio di Ezio Greggio, che nutre un’incrollabile amicizia per quei vicini di casa disgraziati e messi al bando da tutti, mentre vediamo i partigiani processare e fucilare in modo sommario gli avversari.

Il fascismo è la colonna sonora della storia ed è visto nel suo aspetto quotidiano. Di fascisti spietati che sommistrano l’olio di ricino ne abbiamo visti tanti nel cinema, al punto che sono diventati uno stereotipo. Ma io quegli anni li ho vissuti personalmente e ho ricordi precisi. Sicuramente dopo la liberazione ci sono state rese dei conti affrettate delle nefandezze compiute dai nazisti. Ma vorrei dire anche un’altra cosa: non sappiamo cosa abbia fatto davvero il poliziotto Sergio Ghia, non sappiamo se non fosse davvero colpevole e membro della banda di Bose?

 

Lei ha scritto prima il romanzo e poi la sceneggiatura.

Nel romanzo ci sono molti più dettagli sui personaggi. Per esempio del personaggio di Delia, la madre di Giovanna, veniamo a sapere che era scappata dalla natìa Trento con un uomo dal passato turbolento che poi, una volta a Bologna, l’aveva abbandonata. Si manteneva posando nuda all’accademia di belle arti e lì aveva conosciuto Michele Casali, uno studente di pittura piuttosto bruttino che aveva sposato solo per assicurarsi un tetto e un piatto di minestra e che sarebbe diventato un artista fallito e professore di liceo.

 

Perché ha voluto Ezio Greggio, sottraendolo per una volta ai suoi ruoli comici?

Era dal ’92 che volevamo lavorare insieme, ma non c’era mai il ruolo giusto per lui.

 

Non trova il personaggio del padre piuttosto inquietante, con la sua fede incrollabile nell’innocenza della figlia?

Se è inquietante il papà di Giovanna, lo sono anch’io. Anche se la vita mi ha risparmiato un evento così drammatico sono padre di una figlia che ha manifestato, in un certo momento della vita, delle difficoltà di approccio con gli altri. Io, avendo vissuto problemi simili, le sono stato accanto cercando di mentirle su tutto. Insomma, ho riversato in questo film tutto quello che so, di bene e di male, sulla figura paterna.

 

Anche in questo film, come nei suoi precedenti, lei sembra inseguire un inafferabile concetto di amore.

Malgrado i miei 70 anni, sono ancora immaturo in materia di sentimenti. La mia generazione vedeva le donne come qualcosa di assolutamente misterioso, esseri molto amati ma sempre in campo lungo, mai da vicino. Non potrei mai essere amico di una donna: lo so, è un mio limite culturale. Con gli amici maschi riesco a stabilire un rapporto di intimità, con le donne no.

autore
31 Agosto 2008

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