“Un film di suspense, ma intellettuale”. Così Pupi Avati descrive il suo nuovo Un ragazzo d’oro, grande assente tra i film in programma alla 71a Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. “È ora che i festival diano opportunità ai giovani”, chiosa il cineasta emiliano, che intanto lavora su altri due progetti: il film tv Il sole negli occhi, sul dramma degli sbarchi nel Mediterraneo, e un horror con Guillermo del Toro ambientato a Ischia, nel Castello Aragonese, progetto già rivelato in occasione dell’ultimo Ischia Film Festival, di cui è fiero presidente onorario. Un ragazzo d’oro, che sarà in concorso al Festival de Films du Monde di Montréal, esce il 18 settembre.
Come mai non sarà a Venezia 71?
Sono stato nove volte alla Mostra, se ripenso ai miei primi film ricordo che mi chiedevo spesso perché non chiamassero mai noi giovani ai festival, ma ci andassero sempre i soliti nomi. Ecco, oggi credo sia giusto che non siano altri a fare questa stessa considerazione.
Cosa intende raccontare con questo nuovo film?
Come nasce un romanzo che un genitore non è riuscito a scrivere e un figlio (Riccardo Scamarcio, ndr), telepaticamente e misteriosamente, eredita e riesce a portare a termine. Come il mondo della creatività incontra il tema del rapporto padre-figlio.
Di che tipo di rapporto si tratta?
Molto scadente, competitivo. Solo dopo la morte del padre viene rimesso in discussione e recuperato: il figlio inizia ad assumere addirittura le sembianze del genitore, si pettina come lui e arriva a innamorarsi della stessa donna, Sharon Stone.
Com’è stato dirigerla?
Sforzarsi di tenerla dentro una verosimiglianza senza sfociare nello stereotipato. Lavorare insieme sull’interiorità del personaggio. Del resto il film è stato più difficile scriverlo che girarlo, non avevo incertezze narrative: con una star americana è impossibile non avere un copione definito, e attenercisi alla lettera.
È riuscito a costruirci un rapporto extra lavorativo, umano?
No, il rapporto umano è stato inesistente, non siamo diventati amici, voleva rimanere, ed è rimasta, una diva. Si muoveva con 250 fotografi al seguito che accorrevano sul set, una cosa che in Italia non si vedeva dai tempi de La dolce vita.
La dirigerebbe di nuovo?
Non per i prossimi venticinque anni. Poi vediamo.
Non è la prima storia incentrata su un rapporto padre-figlio che porta al cinema (vedi Il papà di Giovanna, Il figlio più piccolo), è un tema che la ossessiona?
La mancanza del padre è il tema della mia vita. Io non ho avuto mio padre accanto da piccolo, una mancanza che si è venuta a imporre nel tempo. Mi sarebbe piaciuta la figura di un padre a cui rendere conto la sera, in fondo.
Si è definito più volte un dissidente, un autore controcorrente. In che senso?
Faccio film da 45 anni, il mio lungo sodalizio con il cinema ha tuttora un costo, soprattutto per mio fratello (il produttore Antonio Avati, ndr) che nell’ambito della fattibilità dei progetti si assume l’onere del lavoro dietro le quinte. Ogni giorno è più difficile raccontare storie che abbiano un minimo di senso e di ambizione. Non disponiamo più di una vera libertà, siamo costantemente ricattati dal mercato. Non possiamo più permetterci di fare qualcosa che non vada bene in termini di incassi al botteghino o di share. E dire che i capolavori per cui tutto il mondo ci ha conosciuto non erano successi commerciali. Io resisto, ma tenere presente di continuo i dati della “quantità” svilisce anche la qualità della proposta.
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