Pupi Avati


I cavalieri che fecero l’impresa, il film più costoso di Pupi Avati, è una coproduzione franco-italiana da 18 miliardi di lire.
Prodotto insieme al fratello Antonio, è interpretato da Raoul Bova, Murray Abraham e Carlo delle Piane. Uscirà ad aprile. “L’impresa – ha spiegato il regista – è stata resa possibile anche grazie all’intervento di un coproduttore francese, che ha investito nell’operazione un terzo dell’intera somma. Del resto il costo alto è dovuto alle varie ambientazioni: in Francia, Inghilterra, Tunisia, Puglia, nella mia amata Todi e a Roma negli studi di Cinecittà”.

Perché le Crociate al cinema costano così tanto?
Ma I cavalieri che fecero l’impresa non è un film sulle Crociate, poiché questo tipo di avventure difficilmente è trasportabile sullo schermo, e persino gli americani, ai quali certo non mancano mezzi e tecnologie, hanno sempre dovuto rinunciare per le troppe difficoltà.

Che cosa racconta il film, allora?
La storia del ritorno in Europa della salma di Luigi IX, San Luigi di Francia. Siamo nella settima crociata e il suo corpo deve tornare a Saint Denis. A questo punto un gruppo ristretto di cavalieri, cinque in tutto, si stacca per un’avventura disperata: il recupero della Sacra Sindone che è stata trafugata a Tebe.

A sentirlo raccontare è un film diverso rispetto alle opere precedenti, a quell’Avati intimista che conosciamo. Perché?
Questo film lo considero un tuffo nella mia infanzia, o meglio nei libri della mia infanzia, libri di avventure, i Libri della Scala d’Oro, dove a farla da padrone erano le avventure dei cavalieri di Re Artù.

E’ stato un film impegnativo, forse troppo.
E’ un film pericoloso: ho deciso di mettere l’asticella molto più in alto del solito. Francamente non so se riuscirò a soddisfare in pieno questa mia ambizione cinematografica. Dopo quasi trenta film debbo passare un esame di maturità nuovo, difficile, e devo dimostrare cosa sono capace di fare. Considero questa avventura una sorta di pazzia e al tempo stesso un bagno di umiltà, visto che sento il desiderio di verificare su me stesso la capacità di controllare questa macchina così grande e articolata.

C’è un po’ di nostalgia per aver abbandonato la retta via del “Truffaut all’italiana”, della magica tenerezza avatiana de “La via degli angeli”?
E’ naturale: lavorare sulla tradizione, sulle cose che sai fare e che ti vengono bene da tanti anni è semplice. Però ad un certo punto, come mi è capitato qualche anno fa con Magnificat, ho sentito il bisogno di sperimentare strade nuove, certamente più difficili, e proprio per questa ragione non mi pento di essermi imbarcato insieme a mio fratello Antonio nell’avventura cinematografica e produttiva più difficile della nostra vita.

Possiamo dire allora che questo è il film dei suoi sogni?
Non esageriamo. Mi sento un regista realizzato: ho fatto tutti i film che volevo fare. Lo considero un premio, anche se debbo riconoscere che lavorare a basso costo mi ha permesso di potermi esprimere come desideravo. Un piccolo sogno lo conservo, e spero di poterlo realizzare per la televisione: un vita di Dante, il Dante che la scuola non racconta.

Ancora Medioevo, allora.
E cosa c’è di più affascinante del Medioevo? Tutte le mie recenti letture e ricerche vertono sul Medioevo. Lì stanno i nostri progenitori europei. Ciò che mi affascina dell’uomo medievale è quella commistione di sacro e violenza che ci spiega meglio di ogni altra lezione chi siamo e da dove veniamo, un po’ come nella storia che con tanta fatica mi accingo a raccontare, dove una grande avventura militare si intreccia ad una grande avventura di fede.
Per gentile concessione di Il cinematografo.

autore
22 Gennaio 2001

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