Il documentario Profughi a Cinecittà diretto da Marco Bertozzi e prodotto Cinecittà Luce e Vivo film, con il patrocinio di UNHCR Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, in collaborazione con Cinecittà Studios e Roma Lazio Film Commission, con il sostegno dellla DG Cinema-MiBAC, ricostruisce una fase poco conosciuta della storia dei famosi studios di via Tuscolana, che va dal secondo conflitto mondiale al dopoguerra e agli anni della ricostruzione, cioè dalla fine del 1943 al 1950.
Dopo essere stati utilizzati come campo di detenzione per novecento uomini rastrellati, il 16 ottobre 1943, nel quartiere del Quadraro, gli Studios vengono razziati dai nazisti e 16 vagoni merci carichi di attrezzature cinematografiche partono da Roma con destinazione Germania e Repubblica di Salò. Nel gennaio del 1944 i teatri di posa vengono bombardati dagli Alleati e il 6 giugno 1944 la ‘città del cinema’ viene requisita dall’Allied Control Commission per garantire l’ospitalità di migliaia di rifugiati creati dalla guerra.
Sorge così, tragica ironia della Storia e del destino, in quella che era stata una creazione e un vanto del regime fascista, un campo di profughi, vittime dell’insensata avventura di guerra di Mussolini a fianco di Hitler.
Il nostro lettore Emilio Morelli di Popolo, dopo aver letto su Internet l’articolo di CinecittàNews Quando la guerra entrò negli studios di Cinecittà ha voluto farci omaggio della sua preziosa testimonianza:
“Sono uno dei tanti profughi che si trovarono nel campo di Cinecittà tra il 1945 e 1947 – racconta – Sono in possesso di documenti certificanti del mio passaggio in quel campo. Ho anche una busta e un invito del “primo aiutante di campo generale di S.A.R. il luogotentente generale del regno” in cui invitava mio padre in udienza privata il 1° Dicembre 1945. L’indirizzo è ‘campo di concentramento Profughi Cinecittà’. Nel 1946, mio padre fu responsabile della ragioneria del campo. Ho ritrovato delle lettere scritte al Col.Bianchini Cesare e una lettera indirizzata al direttore del Giornale della Sera per un articolo apparso il Lunedì 20 (senza altra precisione, suppongo che si trattasse del 20 Maggio 1946) numero 21, in cui figurava una critica del campo. La mia famiglia rimase lì fino ai primi del 1947. Data alla quale ci siamo trasferiti in Egitto fino il 1960. Sono nato il 2 ottobre 1942, ho vissuto dunque l’esperienza tra i tre e i cinque anni. Ho tanti di quei ricordi che non basterebbe un libro per raccontarli. Purtroppo mi considero un analfabeta in letteratura. Teoricamente non dovrei aver nessun ricordo. In realtà ne ho tanti e molto precisi.
Ricordo benissimo il corridoio dove erano stanziate delle camere, separate da pareti di canna. I letti erano dei sacchi di iuta con della paglia. Lo ricordo perché una volta mia madre urlò vedendo dei topi che correvano. Nel corridoio un giorno trovai degli stivaletti, li misi ai piedi e correvo urlando “duce, luce”. Mia madre mi rincorse e mi disse di star zitto. Tra gli altri ricordo un certo Pinotto, che era bruno, capelli corti, ed aveva un impetigine al labbro. Lo ricordo perché proprio quella crosta mi rimase impressa. Ricordo anche che giocavo con lui ed altri ragazzini della nostra età.
Nell’immensità dei ricordi c’è pure quello della cameretta che ci fu attribuita davanti ad un cancello di cui posseggo una foto, e vidi saltare dei ragazzi, tra i quali vi era uno dei miei fratelli, ed uno dei ragazzi aveva un orecchio insanguinato, mio fratello ci disse che aveva fatto scoppiare un barattolo. In quel periodo ero spesso malato e fui ricoverato. Ricordo di un Natale in cui ricevetti una jeep con dei soldatini americani. Mi rammento che facevamo un girotondo in un a sala ampia con delle vetrate chiare e soleggiate. C’erano diversi adulti. Ad un certo punto la vetrata si aprì ed apparve Babbo Natale. Era un omone vestito di bianco con una barba bianca e lunga fino a terra. Poi, uno sbalzo, di qualche anno.
Nel 1950 siamo in Egitto, al Cairo, nella scuola di Don Bosco. Nell’immenso cortile siamo diversi bambini a giocare.
Uno di loro mi diceva che Babbo Natale non esiste.
Io, convinto, dissi di sì che esisteva, lo avevo visto. E lui rispondeva: “no, non esiste !”. Tira e molla, “si” “no, “si” e “no”. Alla fine mi incavolai e gli diedi un pugno nello stomaco. Lui rimase lì con il fiato mozzato. Presi paura e lo scossi.
Riprese il suo respiro. Si continuò a giocare. Una cinquantina d’anni dopo, l’ho ritrovato quel ragazzino. Abita a Parigi. Si chiama Giuseppe Gigliotti. Era il cugino della cantante Dalida“.
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