“È un riconoscimento enorme, ma non ho capito se me lo state consegnando perché pensate che sono al tramonto della carriera” scherza Hirokazu Kore’eda, che nello Spazio FEdS alla Mostra del Cinema di Venezia è stato insignito del Premio Robert Bresson, assegnato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo e dalla Rivista del Cinematografo, con il Patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura, del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede e dell’Istituto Giapponese di Cultura e il contributo della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Ministero per la Cultura.
Giunto alla sua ventitreesima edizione, il riconoscimento – che celebra il regista “che abbia dato una testimonianza, significativa per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della nostra vita” – è un Evento Collaterale della 79ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e sigla la vicinanza fra Fondazione Ente dello Spettacolo e Biennale da ormai oltre venti anni.
Un rapporto testimoniato dalla presenza, durante la cerimonia di premiazione condotta da Federico Pontiggia (giornalista e critico della Rivista del Cinematografo), di Roberto Cicutto, presidente della Biennale, e Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra.
“Alla fine degli anni Novanta – racconta Barbera – ho incontrato Kore’eda a Tokyo. Mi mostrò in anteprima assoluta After Life, un film di grande tensione spirituale, e l’ho subito invitato al Torino Film Festival che all’epoca dirigevo. Ho un ricordo molto forte dei film di Kore’eda, che purtroppo non sono stati tutti distribuiti nel nostro Paese: è uno dei registi più importanti del mondo, rappresenta la continuità con la tradizione di Yasujirō Ozu ma anche una personalità autentica e originale. È il miglior interprete del Giappone d’oggi e lo aspetto a Venezia con i suoi prossimi film”.
E proprio a Venezia, nel 1995, Kore’eda portò in concorso la sua opera prima, Maborosi. “Non avevo ancora esordito – ricorda – e conoscevo la Mostra solo perché Akira Kurosawa aveva vinto un Leone d’Oro. Hou Hsiao-hsien, che aveva vinto nel 1989 con Città dolente, mi spiegò che dovevo assolutamente concentrarmi su Venezia. E così, una volta completato il film, mandai una copia in vhs. Passò un po’ di tempo, quasi mi dimenticai di quell’autocandidatura, e finalmente mi chiamarono. La Mostra era l’unico luogo in cui avrei mandato il mio film d’esordio. Dopodiché della mia esperienza qui non ricordo nulla: è stato come un sogno, è tutto partito da qui. Ogni volta che torno penso sempre di essere a casa”.
Si legge nella motivazione del premio: “Punto di riferimento fondamentale della nuova leva registica giapponese, Kore’eda è il regista che più di ogni altro ha saputo aggiornare i canoni della scuola nipponica, indicando attraverso una poetica estremamente intima e personale il punto in cui tradizione e modernità si guardano, si sfidano, si abbracciano. E laddove i suoi coetanei hanno continuato a interrogarsi sulla generatività del trauma (l’atomica, da Hiroshima a Fukushima) nella mentalità e nella cultura del proprio paese, Kore’eda ha preferito setacciare la coscienza del Giappone dentro l’orizzonte più ampio dell’occidentalizzazione del gusto e dei costumi, ponendo questioni decisive come la memoria, la morte, la famiglia, l’amore, sotto la lente binoculare di una sensibilità ibrida, globale, fortemente contemporanea”.
A spiegare il senso di questa scelta è mons. Davide Milani, Presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo: “Nelle scorse settimane, sono rimasto colpito dalla tragica notizia di quella madre che ha abbandonato a casa la figlia, lasciandola morire di stenti. Avevamo già deciso di celebrare Kore’eda con il Premio Bresson, l’unico riconoscimento che la Chiesa Cattolica conferisce a un regista, una decisione che abbiamo condiviso con S. Em. Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede. Eppure in quel momento sono istintivamente tornato a un suo film, Nessuno lo sa, dove c’è una madre che abbandona i figli in un appartamento. Perciò penso che questa scelta sia particolarmente stata felice: un artista sa rappresentare la realtà e farne sintesi, ma è tale anche perché riesce a predire l’animo umano, sa metterci in guardia sui nostri abissi. Il cinema di Kore’eda è curativo, ci permette di conoscere l’uomo e le sue domande, anche quando fanno cadere nel buio assoluto, e ci guida verso una speranza”.
A celebrare Kore’eda a Venezia anche Okada Seiji, Ambasciatore straordinario e plenipotenziario del Giappone presso la Santa Sede: “Un premio molto importante, che testimonia il rapporto tra il Vaticano e il Giappone nell’ottantesimo anniversario dell’istituzione dei loro rapporti diplomatici. Il cinema di Kore’eda è molto prezioso perché si concentra sul tema della famiglia, anzi di tutte le famiglie possibili: racconta i nuovi nuclei, si confronta con le situazioni più diverse di classi sociali distanti tra loro, mette in scena i rapporti spesso complicati tra i suoi membri. In fondo, per affrontare le problematiche di questo mondo confuso e tumultuoso, dovremmo comportarci come una grande famiglia: potremmo, allora, recuperare quella visione condivisa, sui valori della vita, che ci manca così tanto e che si trova nella visione del maestro Kore’eda”.Shimizu Junichi, Direttore dell’Istituto Giapponese di Cultura, sottolinea come Kore’eda abbia “alzato il livello della cinematografia nipponica. Il Premio Bresson è dedicato a quegli autori che si sono confrontati con il significato spirituale della vita, un tema universale che mette al centro la dimensione umanistica delle opere. La grande forza dei film di Kore’eda è quella di superare gli ostacoli dei linguaggi cercando sempre un incontro che possa elevare le nostre esistenze”.
Emozionato per l’accoglienza calorosa (una sala piena di giovani e con tanti spettatori giunti qui per conoscerlo e ringraziarlo), Kore’eda rivela il suo amore per il regista a cui è intestato il premio: “Robert Bresson è un classico da riscoprire sempre.L’ho scoperto ventenne, da allora continuo a rivedere i suoi film. La sua opera è un libro di testo, a volte molto rigido, che mi ha accompagnato anche quando ero più ribelle e contestavo i suoi pensieri”.
Molti lo chiamano maestro: “Ormai percepisco il peso di questa parola. Quando debuttai, nel 1995, mi chiamarono ‘piccolo maestro’: ora non sono più piccolo” scherza il regista.
“Sono onorato di ricevere questo riconoscimento ma sento anche una forte pressione, mi sento intimorito: quindi prendo esempio da Bresson, un autore che è stato presente fino in fondo nella sua carriera. È un esempio che mi illumina: a volte, piuttosto che rincorrere il futuro, è più importante voltarci indietro”.
E' possibile iscriversi per team di nazionalità italiana composti da registi alla loro opera prima o seconda, associati a produttori che abbiano realizzato almeno tre audiovisivi
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