Tutto, ovunque, nello stesso momento.
Se vogliamo capire il motivo del successo di Everything Everywhere All At Once – agli Oscar e nel mondo. E’ ufficialmente il film più premiato di sempre, nell’epoca in cui domina il ‘di sempre’ come atteggiamento critico e scuola di pensiero – bisogna partire dal titolo. Che da un lato ci fa pensare a un’altra espressione, molto in voga soprattutto tra i meno agée, e spesso usata per giudicare un film: “tanta roba”.
“Tanta, pure troppa”, per citare un vecchio adagio di uno dei personaggi di ‘Mai dire Gol’.
La tendenza all’accumulo è in fatti cifra stilistica di molto del cinema commerciale degli ultimi dieci anni: tutti i supereroi nello stesso film (i vari Avengers). Tante versioni dello stesso supereroe nello stesso film (Spider-Man: No Way Home), mille trame intrecciate e aperte al cross-over su altre pellicole o su serie televisive, videogiochi, fumetti – perché ovviamente anche ‘cross’ è un’altra parola magica, dato che tutto deve essere anche ‘cross-mediale’ – tanto che a volte si fatica a tenere le fila.
Non solo: dato che i film più grandi sono e più devono incassare, puntando possibilmente al primo weekend, i kolossal al cinema diventano spesso “minestroni” di generi e situazioni: battute infantili per conquistare i piccoli, momenti drammatici per rabbonire i genitori, belle facce di nuovi attori per attirare i teenager, qualche vecchia gloria che fa un cameo per i più grandicelli.
E il sistema, c’è da dire, comincia a stancare.
I fan dei film Marvel hanno denotato un indubbio calo di qualità, e anche gli incassi al botteghino, sebbene ancora notevoli, non sono più duraturi come un tempo. C’è stato anche il ritorno di James Cameron con il suo sequel di Avatar, che con una formula a base di trama scarna e immagini ragionate e affascinanti – complice l’uso del 3D che ormai è una rarità – lasciando molto spazio anche alla scrittura dei personaggi, è tornato in vetta ma soprattutto ha dimostrato di poter ottenere una tenitura importante per come funzionano le cose oggi.
Qualcosa, insomma, sta cambiando.
Everything… però – che il “tanta roba” lo sublima e in tal modo lo mette anche un po’ alla berlina – è partito in sordina, da qualche parte in un 2022 che ancora si stava riprendendo dagli effetti devastanti della pandemia, facendosi strada soprattutto tra festival e riviste molto specializzate mentre il grande pubblico lo ignorava e perfino la distribuzione non lo prendeva troppo sul serio.
Per dire, in Italia è arrivato a ottobre quando negli USA era uscito a marzo, ed era già disponibile in formato home-video, il che automaticamente significa anche che era visionabile, in una versione di ottima qualità, anche sui siti pirata, oppure importandolo dall’estero. E’ un film di genere, certamente, perché parla di ‘Multiverso’ – e viene un po’ da sorridere immaginando la faccia dei dirigenti dei Marvel Studios, che da tempo inseguono l’Oscar, alla notizia che il primo film sul Multiverso a vincere il premio non viene da loro – ma lo declina in una chiave drammatica e originale, che diventa la metafora della vita di ciascuno di noi.
Tutti, come la protagonista Evelyn (Michelle Yeoh), lavandaia cinese immigrata in America, a un certo punto della vita ci troviamo di fronte alla necessità di comprendere che non sempre quello che volevamo fare coincide con quello che sappiamo fare, e non necessariamente le due cose coincidono con quello che siamo realmente chiamati a fare (asse tematico già presente, ad esempio, nel Joker di Todd Philips).
Il nostro multiverso (con la m miniuscola) è questo: ogni scelta che facciamo crea una realtà alternativa in cui ci relazioniamo in maniera diversa con noi stessi e le persone che ci circondano, pagandone le conseguenze. E a volte, all’improvviso, dobbiamo affrontare mille problemi – economici, familiari, personali – che sembrano schiacciarci relazionandosi l’uno all’altro tutti, ovunque e nello stesso momento.
Ma lì sta l’originalità, perché il Multiverso non è solo questione da supereroi, anzi. Diventa interessante proprio quando sono personaggi non solo senza poteri, ma anche senza nessuna dote, a doversi districare nelle sue infinite possibilità.
Va detto a onor del vero che dietro alla produzione del film – diretto con mestiere da Daniel Kwan e Daniel Scheinert – ci sono proprio due ‘teste di Marvel’, ovvero i fratelli Russo, a loro volta al timone di molti film di supereroi più tradizionalmente intesi come il colossale Avengers: Endgame.
Evidentemente hanno elaborato la questione per ripresentarla al mondo più forte, più potente e più intellettuale quel tanto che basta per convincere le giurie.
Inoltre, c’è Ke Huy Quan in grande spolvero, icona degli anni Ottanta per aver interpretato – da bambino – Data nei Goonies e la spalla di Indiana Jones ne Il tempio maledetto. Chi potrebbe mai negare un Oscar a un tale concentrato di simpatia?
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