La musica è il suo centro, seppur sia un’artista versatile, prestata anche al teatro: la britannica PJ Harvey viene “ritratta” dallo sguardo di un fotoreporter, qui regista alla sua opera prima, infatti l’irlandese Seamus Murphy dirige PJ Harvey – A Dog Called Money, non solo una biografia, non uno sguardo centrato sulla musica, ma dentro il processo creativo dell’arte dopo che l’artista ha metabolizzato il mondo.
L’ispirazione e la creazione di un’opera, sia essa anche la musica, è un concetto complesso da rendere allo sguardo, ma probabilmente il saper guardare fotografico, sommato qui a quello dietro la macchina presa, permettono una visione non didascalica e più introspettiva.
PJ Harvey e Seamus Murphy hanno spesso viaggiato insieme, con una contaminazione artistica reciproca, come è accaduto per la creazione dell’album The Hope Six Demolition Project: il viaggio del docu-film prende il via da Kabul, che ritorna poi spesso, e questo viaggio, e lo sguardo su di lei che lo compie, sono come “appunti” che permettono di essere guardati – nell’azione, e ascoltati – dalla fine voce dell’artista, che condivide sentimenti e riflessioni.
S’entra poi dentro un luogo più prevedibile per la musica, uno studio di registrazione che permette al pubblico – immaginando che possa essere composto anche da tutte le genti incontrate nel viaggio – di assistere alle incisioni attraverso una vetrata, “schermo” e finestra, a cui potersi affacciare per guardarla, ma con un filtro di distacco, seppur trasparente, dunque presente ma non limitante empaticamente.
Una frase – “Ho sentito che vent’anni fa si poteva pagare ed entrare in un cinema con dei proiettili” – l’essenza del racconto e lo spunto anche per il titolo, A Dog Called Money, infatti: “Questa affermazione misteriosa incarna ciò che senti nell’atmosfera febbricitante di una guerra. Le parole, pronunciate da PJ Harvey o Polly, come la chiamo io, sono le prime parole di A Dog Called Money. Era qualcosa che avevo sentito nel mio primo viaggio in Afghanistan come fotoreporter nel 1994, nel periodo di una terribile guerra civile. Devo averlo condiviso con lei quando eravamo a Kabul insieme nel 2012. Ora, quando sento Polly leggere quella battuta, a distanza di anni, è come se una vecchia storia venisse rispolverata dal mito. Era una delle voci, tra le molte, dei quaderni che teneva mentre viaggiavamo insieme in Kosovo, Afghanistan e Washington DC per il nostro progetto. I suoi appunti erano costituiti da frasi, scarabocchi, note a margine, impressioni di prima mano. Come fossero indicazioni per se stessa su come cantare le canzoni che scriveva sulle pagine, come per magia, mentre viaggiavamo…” o anche come fossero “note di regia”, si può osar dire di commento a quanto affermato Murphy, che infatti continua spiegando come: “Polly, leggendo estratti dei suoi quaderni, è diventata il filo che avrei usato per collegare gli elementi disparati del progetto, per cui abbiamo viaggiato in tre luoghi diversi e distinti per vedere, ascoltare e registrare le storie. Alla fine queste note sono diventate canzoni per l’album e la stessa registrazione è stata un’installazione artistica di cinque settimane, con il pubblico invitato a testimoniare il processo di nascita dell’album attraverso un vetro unidirezionale”.
Seppur potrebbe rischiare, A Dog Called Money non inciampa nell’autoreferenzialità, ma permette di entrare in contatto con la PJ Harvey che stabilisce rapporti con le persone e i loro luoghi: della Capitale del potere statunitense, Washington DC, ci sono i due volti, quello istituzionale della Casa Bianca e quello popolare e marginale oltre il fiume Potomac, che la cantante e lo sguardo di Murphy restituiscono all’unisono, così come succede per il monastero di Visoki Dečaniin in Kosovo, in uno scambio perenne – come canali comunicanti – con l’interno dello studio di registrazione.
Il film, dal 21 maggio, esce online su Wanted Zone – La sala virtuale del cinema libero, indipendente e “ricercato”, che nasce e debutta proprio con questo film.
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