MILANO – Pippo Mezzapesa, regista di Ti mangio il cuore, è nella rosa dei sei finalisti del Premio Caligari, all’interno della XXXII edizione del Noir in Festival. “CinecittàNews”, media partner della manifestazione, conferirà una Menzione Speciale ad una delle sei opere candidate, incontrando giorno per giorno – fino al 7 dicembre, serata della premiazione – due autori nominati per il premio.
Pippo, una riflessione sul genere nel cinema, che ha fatto grandi alcune stagioni e che di recente sta tornando a occupare la parte più interessante della produzione italiana. Da autore, cosa permette in più scegliere di abbracciare un genere? Che valore aggiunto dà a una storia? Che dialogo stabilisce con il pubblico?
Il genere ti offre la possibilità di raccontare storie che ti proiettano in determinati mondi, che ti relazionano con determinate dinamiche. È come se ti incanalassero ponendoti degli argini, che però ti viene permesso di valicare, spingendoti a ‘tradire’ il genere stesso, per divertirti a smarcarti dagli esempi che magari t’hanno ispirato. Io mi sono approcciato al genere con Ti mangio il cuore, cercando di raccontare sì una storia noir ma allo stesso tempo cercando di farlo in modo originale, cercando di contaminare il genere. Sicuramente il film di genere offre un maggior orientamento al pubblico, offre un prodotto che può riconoscere in maniera immediata e quindi il film può intercettare subito una determinata platea, rispetto a forme che richiedono un’attenzione differente nell’approccio.
Nello specifico del suo film – Ti mangio il cuore – perché ha scelto il genere, su quali paradigmi dello stesso ha puntato e come ha costruito il film in quest’ottica?
Volevo raccontare una storia di genere, che fosse ambientata in un contesto criminale e quando ho avuto la possibilità di farlo attraverso questo romanzo, per altro avendo già intercettato la storia anni fa nella cronaca: ho cercato di raccontare la violenza, l’ineluttabilità del male, e anche l’azione criminosa, ma soprattutto di entrare nelle dinamiche famigliari. Ho cercato di rispettare le regole del gangster movie ma con un approccio molto personale, proprio cercando di contaminare il genere.
Per il suo film, in finale al Premio Caligari, e in generale per la sua idea di cinema di genere, ci sono degli autori o delle opere di riferimento?
Cerco di non ispirarmi molto quando scrivo o mi approccio a un film, cerco un avvicinamento molto personale, sia dal punto di vista narrativo che visivo, per cui tutte le influenze che provengono dal pregresso visto sono inconsce, non cercate: ho delle influenze inconsapevoli ma inevitabili, dal cinema americano Anni ’70, Coppola, Scorsese, ma anche Ferrara. Se dovessi proprio citare un film con dinamiche simili, e che mi ha entusiasmato, anche se non mi ha ispirato, è The Funeral (Fratelli) di Abel Ferrara.
Claudio Caligari, a cui il premio per cui è nella rosa dei finalisti è dedicato, che passo pensa abbia impresso, nel nome del genere, nel cinema italiano?
S’immergeva nel genere con visceralità, spontaneità e crudezza, riusciva a inserire anche quel tocco di paradosso, grottesco, che rendeva sì i suoi film di genere ma anche di un genere personale.
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