Pippo Delbono: “Il mio Henri e la magia di un incontro”


CANNES – Alto e imponente, Pippo Delbono può essere spaventosamente cattivo – come in Io sono l’amore di Luca Guadagnino – oppure dolce come l’orsacchiotto che porta in braccio la sua co-protagonista Candy Ming in Henri, l’opera seconda dell’attrice belga Yolande Moreau, passata oggi alla Quinzaine des Réalisateurs. Impegnatissimo su mille set (sia teatrali che cinematografici), in questa tragicommedia super-applaudita dal pubblico, Delbono è un cinquantenne di origini italiane che gestisce un ristorantino con la moglie Rita e adora i piccioni. All’improvviso, però, lei muore, e lui si farà convincere a farsi aiutare nel locale da “Papillon”, una delle residenti del vicino istituto per persone con problemi mentali. Tra loro sboccerà un tenero avvicinamento che sfida tutte le convenzioni e i moralismi. Nel cast spunta anche il suo Bobo, un uomo sordomuto e analfabeta che ha incontrato per caso anni fa nel manicomio di Aversa e diventato il suo attore feticcio.

 

Questo film unisce due mondi, il suo e quello di Yolande Moreau, che per molti versi sono affini…

Sì, e ne sono molto contento. E’ bellissimo quando si verificano questi incontri pieni di magia e di mistero. Sono incroci molto più profondi di quanto possa mai essere una sceneggiatura.

 

Come si sono incrociati i vostri percorsi?

Io avevo visto Séraphine e avevo trovato fantastica Yolande Moreau. Nel frattempo il suo regista aveva visto me e aveva pensato che fossi perfetto per diventare il suo Henri. Ci siamo conosciuti solo dopo, e lei non sapeva nemmeno del mio rapporto e del mio lavoro con Bobo.

 

Come succede spesso anche nei suoi lavori per il cinema e per il teatro, qui si parla di marginali e persone con handicap.

Sì, ma in realtà il film parla della bellezza, dell’amore, della libertà, di un incontro. Bisogna smetterla col finto moralismo, io ho portato dentro questo film la mia esperienza con Bobo. Mai, per un solo istante della mia vita, l’ho visto come un handicappato: per me lui non è altro che un attore straordinario e anche in questo film di Yolande, quando arriva lui con la sua magliettina azzurra, è come se sbocciasse un fiore.

 

Lei e Yolande Moreau siete accomunati da un uso particolare del corpo e dei silenzi, in scena.

Cerchiamo entrambi la verità, nello sguardo, nel corpo, nella danza e lei, sia come attrice che come regista, riesce a creare dei ritmi fuori dalle regole. Ti permette di portare nella scena un tempo più lungo di quello di solito consentito dal montaggio. E’ una specie di sincopatia.

 

Che indicazioni le ha dato sul set?

Conoscendo benissimo il lavoro dell’attore, visto che lo è, sa cosa significa essere un interprete, cioè non tanto cercare l’identificazione psicofisica, ma avvicinarsi a una sorta di rituale sciamanico. Ti fai assorbire e ti lasci guardare dentro. E’ importante tirare fuori la verità della bellezza senza mascherarsi dietro le cose. E poi è stato bello essere in questo film anche perché è una boccata di ossigeno rispetto all’Italia, dove se una volta fai la parte dell’imprenditore, ti chiedono di rifarla all’infinito. Per fortuna che hanno visto in pochi il film di Greenaway dove c’ero anch’io, altrimenti ora tutti mi chiederebbero di rifare Dio.

 

Prossimamente sarà nel film di Marco Risi…
Sì, Cha cha cha esce il 20 giugno. Il mio personaggio è cattivissimo, è l’esasperazione di quello che ero in Io sono l’amore. Chi mi ha già visto in quel ruolo mi ha detto: “Sei proprio un bastardo!”.

 

Cosa le dà il cinema rispetto al teatro?
Ora è l’unica cosa che mi fa sentire giovane, in cui trovo stupore. Da tempo, a teatro, non ci sono più cose che mi eccitano, si è seduto su se stesso.

 

Prossimi progetti?
Dal 31 maggio inizio la tourné teatrale di Orchidee, in cui recita anche Bobo. Al cinema invece il 20 giugno esce il film di Risi e il 27 il mio, Amore carne, con Irène Jacob, Tilda Swinton e Sophie Calle. Poi ci sarà Il sangue in cui “faccio parlare” mia mamma morta da poco e il brigatista Giovanni Senzani. La storia della malattia e della morte di mia madre corre parallela alla malattia e alla morte della sua compagna, Anna. Senzani non mi parla come pentito, ma come persona che ha fatto un percorso. La sua compagna è morta una settimana dopo mia madre e ci siamo trovati nella stessa condizione contemporaneamente. Mia madre aveva un problema con i comunisti perché atei, e io invece le ho fatto incontrare una persona comunista e atea persino dopo la morte.

 

autore
24 Maggio 2013

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