Piero Messina: il lutto negato

In Concorso 'L’attesa', con Juliette Binoche, opera prima del regista siciliano, dopo esperienze nel mondo della pubblicità e dei videoclip e tanti anni di lavoro al fianco di Paolo Sorrentino.


Il film, in uscita il 16 settembre con Medusa in 150 copie, è sorrentiniano forse nella forma, ma non nella sostanza e nel complesso narrativo, calato in una dimensione intimista, locale (tutto ambientato in un paesino della Sicilia seguendo le regole di unità di tempo, luogo e spazio) e molto umana.

La trama, vagamente ispirata a varie opere di Pirandello, racconta dell’incontro tra Anna (Binoche) che ha da poco subito la tragica perdita del figlio, e la giovane Jeanne (Lou De Laage), che del ragazzo è la fidanzata, inconsapevole – forse non del tutto – di quanto accaduto. Lui l’aveva invitata a trascorrere qualche giorno di vacanza insieme, prima di morire. Anna ignora l’esistenza di Jeanne, e non riesce ad accettare il terribile lutto. Così decide di non parlarne, accompagnando la nuova amica, e sé stessa, verso un percorso graduale di accettazione. Nel cast anche Giorgio Colangeli.

E’ vero che il film nasce da un suo ricordo d’infanzia?

E’ vero. Sicilia e infanzia per me sono sinonimi. Inizio a scrivere una storia quando due cose apparentemente lontane tra loro si incontrano e iniziano a raccontare qualcosa. Ci sono dunque varie suggestioni. Un mio amico mi raccontò di un padre che aveva perso un figlio e per un tempo ragionevole – in quel caso un pomeriggio –  aveva deciso di non parlarne, facendo finta che nulla fosse accaduto, coinvolgendo anche tutti i membri della famiglia e le persone che gli stavano attorno. Poi avevo un ricordo di bambino, al contempo meraviglioso e inquietante. Le processioni, con tutti quei volti trasfigurati dal dolore che piangevano alla vista di una statua di legno. Erano immagini anche piuttosto violente, ma forse proprio il fatto che si trattasse di un ricordo di infanzia mi ha aiutato a non renderle in maniera fredda o documentaristica. Questi elementi hanno qualcosa in comune: si tratta di persone che decidono di condividere un’idea. E quando la condividono in tanti, diventa reale.

E Pirandello?

E’ arrivato dopo. Abbiamo iniziato a scrivere quando ancora stavo studiando, senza metodo e senza particolare ambizione. All’inizio era una storia corale, poi era diventato un film in costume. Esistono molte stesure della sceneggiatura, le ho ritrovate proprio per prepararmi a Venezia. Proprio all’ultima versione della stesura un mio amico mi ha consigliato di leggere Pirandello, sia ‘La vita che ti diedi’ che ‘La camera in attesa’, che fondamentalmente mi hanno aiutato a chiudere la storia. Ad esempio il personaggio di Lou non veniva dalla Francia, nelle prime versioni, ma abbiamo trovato che questo suo aspetto da ‘forestiera’, il trovarsi in un mondo sconosciuto e piccolo, aiutasse la storia.

Come l’ha scelta?

Con una grande ricerca di casting durato sei mesi, a Parigi. E’ stato difficile. Lei è stata scelta in corner. Ultimo giorno, ultimo appuntamento, è arrivata anche in ritardo e sinceramente ero scocciato. Mi dicevo ‘non può essere lei’, ma la prima lettura mi ha convinto, anche se ero stanchissimo. Ho detto ‘c’è un problema, qui bisogna fare un provino vero. A me una videocamera’. Ed è diventata una prova di tre ore. Ho capito che se non avevo trovato ancora l’attrice giusta era perché stavo cercando male, e che lei sarebbe stata in grado di aggiungere veramente qualcosa al personaggio.

Ad esempio?

Riesce a rendere realistico il fatto che Jeanne non si accorga di niente. Siamo nell’epoca dei cellulari, difficile che in un’intera settimana lei non capisca che il suo ragazzo non tornerà più. Ma Lou ha trovato la chiave: Jeanne non vede quello che non vuole vedere. Anche se l’alternativa è credere a ipotesi piuttosto strane, è più facile accettare quelle che vedere la cosa terribile che si trova dietro la porta. O quantomeno, vuole arrivare ad aprire quella porta molto piano, non è totalmente inconsapevole.

Ma questo aspetto della trama, ovvero di essere ambientata in un mondo dove le informazioni corrono in fretta, non vi ha creato problemi di sceneggiatura?

Proprio per questo avevo pensato di farne un film in costume. Ci abbiamo molto riflettuto, temevamo che la presenza dei cellulari avrebbe reso tutto inverosimile. Ma gli sceneggiatori hanno una regola: “se hai un problema, mettilo in scena”. Così ci siamo messi a riflettere su come la presenza dei cellulari avrebbe potuto invece arricchire la trama in maniera utile, senza cercare di nasconderla in maniera artificiosa. Il punto di svolta è stato pensare alla segreteria telefonica. Proprio sui messaggi lasciati da Jeanne sul telefono del suo ragazzo abbiamo iniziato a costruire i dialoghi.

Com’è stato invece lavorare con Juliette Binoche? Era la sua prima scelta?

Sì. Avevo in mente lei ma non speravo di poterla davvero coinvolgere. Avevo detto ai produttori ‘ci vorrebbe un’attrice come Juliette Binoche’ ma non pensavo che sarebbero riusciti davvero ad arrivarci. La ammiro chiaramente da quando studiavo al Dams, riesce perfettamente a calarsi nel dolore. Lei dice ‘io non recito, io sono’.

Togliamoci il dente. Lei ha lavorato tanto con Sorrentino. Quanto si sente influenzato da quest’esperienza?

Ridurre tutto a un film sorrentiniano è un po’ limitante. Diciamo che ho mantenuto qualche ‘svolazzo registico’. Per il resto non mi pongo ancora la questione della ricerca di uno stile, è presto. So quello che non mi piace fare e per ora mi basta.

Ma Sorrentino lo ha visto, il film?

Lo ha visto in una fase avanzata del montaggio. Ma non le dico cosa mi ha detto, non me la sento. Lo chieda a lui quando lo incontra.

Cosa cambia nel lavorare a un film, a una pubblicità o a un videoclip?

Non molto, il mio metodo è sempre lo stesso, a cambiare è solo il risultato.

Ha uno stile di montaggio piuttosto forte. Si sofferma spesso sulle inquadrature, con ritmi rarefatti…

Non ha un significato particolare. Con la montatrice abbiamo deciso di dare un ritmo lento, soprattutto all’inizio, quando il personaggio è fermo, statico, bloccato nel suo dolore. Anche la casa è fredda e silente. Poi c’è un’evoluzione. Jeanne porta la vita in quella casa. Il ritmo cambia. C’è un risveglio.

Un altro dei suoi maestri è Sokurov. Lo ha studiato molto se non sbaglio, e ora è qui in Concorso con lui…

Il suo cinema mi ha sempre emozionato e continua a farlo. Quando ho letto il suo nome nel cartellone sono stato quasi più felice di quando ho letto il mio. Anche se chiaramente sono cosciente che la Mostra aiuterà molto il mio film a essere visto.

Lo inserisce tra le sue influenze?

Non so rispondere razionalmente, penso di poterci inserire ogni cosa che mi emoziona o mi meraviglia.

Sta già pensando ai prossimi progetti?

Sì, ma ci vado piano. Quando racconti qualcosa stai già iniziando a scriverla. Sicuramente non vorrei perdermi e rischiare di stare due anni a non far nulla. Questo mi spaventerebbe.

Magari si può rilassare suonando, visto che è anche un musicista…

In effetti sì, ho dei pezzi da registrare, mi dico sempre ‘finito questo lo faccio’. Sono intervenuto anche nella colonna sonora del film, tento sempre di delegare ma ho un problema. Inizio man mano a dare indicazioni talmente precise che alla fine imbraccio lo strumento e mi metto a suonare in prima persona. Considero l’aspetto musicale estremamente importante.    

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