Marito fedifrago, inguaribile timido, trombettista squattrinato pronto a trasformarsi in fidanzato in affitto. Pierfrancesco Favino incarna fragilità, stereotipi e contraddizioni del maschio italiano.
L’ultima stagione l’abbiamo visto nelle commedie Mariti in affitto di Ilaria Borrelli e Al cuore si comanda di Giovanni Morricone. La prossima tornerà sugli schermi in Nessun messaggio in segreteria di Luca Miniero e Paolo Genovese e Amatemi! di Renato De Maria. Gianni Amelio gli ha affidato un piccolo ruolo nell’atteso Le chiavi di casa. Favino, ospite i giorni scorsi del festival “Lo schermo è donna” di Fiano Romano, è ora impegnato in una docufiction con un gruppo di amici attori diretti da Gianni Zanasi e Lucio Pellegrini.
Come ti trovi nel ruolo dell’uomo traditore?
Trovo interessante la messa in scena di uomini ambigui che però non riguarda solo la nostra generazione. Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini sono stati maestri nel far emergere i lati foschi della maschilità. Tradisco anche nel film di De Maria, la versione femminile di L’uomo che amava le donne. Io e Isabella Ferrari siamo un coppia di provincia dalla vita fin troppo regolare. La lascio e lei impara a riprendere in mano la sua vita. Sulla carta il mio ruolo era piuttosto sgradevole e ho provato a infondergli del calore, perché è semplicemente quello di un uomo che vive una situazione piuttosto comune ma scomoda da raccontare.
In “Nessun messaggio in segreteria” hai un ‘doppio’ (Valerio Mastandrea) e sei diretto da una coppia di registi. Questa situazione ti ha disorientato?
All’inizio è stato caotico ascoltare entrambi i registi poi ho capito le competenze specifiche di ognuno. Interpreto Piero, un timido quasi patologico a cui sono molto affezionato. Mastandrea, che nella vita è notoriamente un timido, si è ritrovato a fare lo spavaldo, per me è stato il contrario. Sul set abbiamo giocato alla citazione reciproca.
L’incontro con Amelio?
Mi ha chiamato per un ruolo piccolissimo ed era quasi imbarazzato ad offrirmelo, ma non ho esitato un attimo ad accettare. Lavorare con lui è stata una rivelazione anche dal punto di vista umano. Appaio nel prologo: sono colui che si prende cura del bambino diversamente abile, rifiutato dal padre.
Un ruolo che avresti voluto interpretare?
Quello del protagonista di La vita che vorrei, il nuovo film di Giuseppe Piccioni. Ho fatto il provino ma ero nervoso, non ho dato il meglio, e il ruolo è andato a Luigi Lo Cascio. Peccato, perché mi ritrovavo nel personaggio dell’attore, in alcune sue modalità di affrontare il rapporto tra vita e lavoro.
Raccontaci della docufiction di Zanasi e Pellegrini.
Gianni e Lucio seguono un gruppo di amici attori da circa una mese. Tra gli altri, Sabrina Impacciatore, Carlotta Natoli, Dino Abbrescia e Paolo Sassanelli. Vogliono raccontare i lati poco conosciuti della nostra vita. Hanno filmato cene, partite di calcio e persino le nostre reazioni dopo le elezioni europee. Mi hanno seguito a teatro filmando la tensione dell’entrata in scena, tra le mura di casa e anche in situazioni ridicole.
A maggio hai portato a teatro “La notte poco prima delle foreste”, monologo di Bernard-Marie Koltès. Pensi di riproporlo?
Sì, ci sto lavorando con il regista Lorenzo Gioielli. E’ un progetto che ho inseguito a lungo. La figura dello straniero disegnata da Koltès è di grande attualità, ma l’estraneità dell’individuo dal gruppo va al di là della cronaca e tocca tantissime corde dell’animo umano. Nello spettacolo abbiamo introdotto alcune note leggere. Persone che detestano il teatro si sono emozionate, alcuni colleghi ne hanno tratto ispirazione. Per me è stata come benzina per lo spirito.
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