Avrebbe voluto Marcello Mastroianni, se fosse ancora vivo, come protagonista della sua commedia Le donne del 6° piano, storia di un rigido e noioso agente di cambio parigino che si vede sconvolgere (piacevolmente) l’esistenza dall’amicizia con un gruppo di cameriere spagnole. Ha puntato invece su Fabrice Luchini, attore ben diverso dal nostro Marcello ma dotato come lui di una buona dose di autoironia già dimostrata nel ruolo del padrone delle ferriere di Potiche. Philippe Le Guay è a Roma, nell’ambito dei Rendez-vous del cinema francese, per parlare della sua pellicola che in Francia è stata un inatteso e clamoroso successo con oltre due milioni di spettatori e che in Italia uscirà il 10 giugno con l’Archibald di Vania Traxler. “Contiamo, in quella data, di avere più spazio e i locali giusti sperando nel passaparola che questo film merita”, dice la coraggiosa distributrice.
Visto fuori concorso alla Berlinale, Les Femmes du 6ème étage è interpretato anche da Sandrine Kiberlain, nel ruolo di una moglie provinciale e freddina, e poi dalle scatenate domestiche ispaniche che vivono nella mandarda di un elegante palazzo del 6eme arrondissement: l’argentina Natalia Verbeke e le spagnole Carmen Maura e Lola Dueñas, insieme a Berta Ojea, Nuria Sole e Concha Galan. Ambientato a Parigi nel 1962, alla fine della guerra d’Algeria ed in piena era De Gaulle, il film racconta la trasformazione di un ricco borghese che riscopre la vita in compagnia di queste sei donne che lo trasportano in un universo colorato e protettivo, oltre ogni steccato sociale. Tra queste c’è Maria, una giovane ragazza madre che presta servizio a casa sua e che ne subisce in qualche modo il fascino. Ma per fortuna Le donne del 6° piano non insiste troppo sull’aspetto romantico, abbastanza scontato, e privilegia quello corale. “Ero cosciente di rasentare il peggior cliché che esista, quello del padrone che s’innamora della servetta. Perciò ho cercato in tutti i modi di evitarlo”, dice Le Guay. Che coltiva da sempre un certo gusto per i caratteri iberici (magari è l’onda lunga dell’effetto Almodovar) “Da tempo volevo lavorare con le attrici spagnole che trovo splendide, hanno gli stessi volti che trovi al Prado nelle opere di Goya e Velazquez“.
Lo considera un film al femminile?
In qualche modo sì. Io amo le donne e mi dispiace per quei registi che si rinchiudono nelle prigioni o nei monasteri… non dovrei dirlo perché il mio produttore è lo stesso di Uomini di Dio.
Come avete lavorato sull’ambientazione anni ’60?
Con lo sceneggiatore, Jérome Tonnerre, abbiamo incontrato molti immigrati spagnoli che erano arrivati a Parigi negli anni ’60 e che oggi hanno circa ottant’anni. Ci hanno restituito questo sentimento di gioia e di libertà nonostante le dure giornate di lavoro, che iniziavano alle 6 per finire a mezzanotte. Sentivano comunque di essere scampati al franchismo e, nel caso delle donne, di essersi emancipate da una società maschilista dove erano oppresse dagli uomini. Lavoravano sodo ma poi potevano andare a ballare oppure a vedere gli incontri di boxe.
C’è un lato molto personale di questa storia, come lei ha raccontato più volte.
E’ vero. Mia madre aveva una cameriera spagnola, Lourdes, che è rimasta con noi per due o tre anni, quando io ero molto piccolo, tanto che a 5 anni parlavo meglio lo spagnolo del francese con grande preoccupazione di mia madre. Lourdes faceva parte della mitologia della mia famiglia: uno psicoanalista direbbe che il film nasce da questo mio primo amore non corrisposto… Un altro aspetto autobiografico è legato a mio padre, che era un esperto di finanza come il personaggio di Fabrice Luchini, e veniva da tre generazioni di agenti di cambio, tradizione che io ho interrotto facendo il cinema. Mio padre era un uomo un po’ distante, ma aveva un lato sognatore che lo allontanava dal suo mondo borghese.
Oggi i temi dell’immigrazione sono immersi in un clima plumbeo, ben diverso dall’atmosfera colorata e leggera del film.
In quegli anni, negli anni ’60, c’erano grandi possibilità di integrazione in Europa, come dimostrano i tanti figli o nipoti di italiani trapiantati in Francia, tra cui anche Luchini. Oggi invece il tema è doloroso, ci sono leggi molti repressive, da dieci anni in Francia c’è una politica di espulsione violenta. Gli immigrati sono sentiti come un pericolo, una minaccia. Ma il mio film vuole appunto riaffermare i valori positivi dell’accoglienza.
Il film propone in qualche modo un’utopia interclassista.
Sono cosciente che l’idea che i borghesi si possano trasferire al 6° piano sia utopica. Devo dire che il mio personaggio non ha programmi politici, non è Che Guevara e non vuole aiutare la gente che soffre, ma finisce comunque per farsi contaminare da una realtà che per lui era totalmente sconosciuta. Lui si lascia andare, mentre sono i suoi figli che incarnano la legge e il principio di realtà, come pure il personaggio di Carmen Maura: non vuole che Maria abbia una storia con Luchini, sia perché è sposato, sia perché pensa che ciascuno debba restare al suo posto. Non solo tra i borghesi, ma anche tra i proletari, esiste questo forte istinto che spinge ciascuno a restare al proprio posto senza rimescolare le carte. Eppure la mescolanza tra padroni e servitù è un tema classico della letteratura e del cinema francese, da Molière e Marivaux a Sacha Guitry e Jean Renoir.
Chi ha decretato il grande successo del film oltralpe? La considera una commedia per signore?
All’inizio il pubblico era composto prevalentemente di persone di una certa età. Poi l’hanno visto anche persone diverse, più giovani, che non sapevano niente della Francia degli anni ’60. E’ piaciuto un po’ a tutti.
Non crede che questa sia anche la storia di un uomo che vive in modo creativo la sua crisi di mezza età, reinventandosi una nuova e diversa esistenza?
Quando si parla di crisi al cinema, il pensiero corre subito a Michelangelo Antonioni. Ma io credo di raccontare piuttosto il risveglio di un uomo che non ha rimorsi, che non pensa di aver fatto scelte sbagliate, ma che semplicemente si era addormentato rispetto ai suoi desideri, alla sua vita e che ora scopre qualcosa di nuovo.
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