Lecce. “Per questa favola drammatica ho voluto Piera Degli Esposti un’attrice che amo tantissimo e che è tornata dopo tanti anni a Cagliari, dove aveva vissuto sua sorella. E poi ho voluto Julien Alluguette, protagonista di I misteri di Lisbona di Raoul Ruiz”. Il 33enne regista cagliaritano Peter Marcias, già regista di Un attimo sospesi e Liliana Cavani, una donna nel cinema, con I bambini della sua vita è in concorso al Festival del cinema europeo, in attesa di uscire in sala il 22 aprile distribuito da Gianluca Arcopinto. Un’opera prodotta da Janas Pictures e Ultima Onda, con la collaborazione della Regione autonoma della Sardegna, Agenzia regionale del lavoro, Comune di Cagliari, in associazione con Società Umanitaria Cineteca sarda.
Nel cast anche Caterina Gramaglia, Carla Buttarazzi, Giulia Bellu e Nino Frassica.
I bambini della sua vita racconta la storia della giovane Alice che, dopo anni di buio, ricerca la verità su quell’insolita sua famiglia composta da Silvia ragazza madre tossicodipendente spesso assente, Rosaria nonna materna forte e presente, Julien giovane francese affettuoso. E proprio grazie all’incontro risolutore con quest’ultimo, Alice fa pace con il suo passato e trova inaspettatamente la forza di tornare alla vita e di sorridere.
Come nasce il film?
Dalla volontà di tornare nella mia città, Cagliari, dopo che avevo girato a Roma Un attimo sospesi nel 2007. E poi nasce con la sceneggiatura, un po’ a incastri, dello scrittore Marco Porru, che è finalista del premio Italo Calvino con il suo primo romanzo “L’eredità dei corpi”. Una sceneggiatura costruita su una ventenne che a ritroso cerca di scoprire che cosa è successo un tempo in quella sua famiglia anomala, composta da una madre spesso assente, una nonna mamma un po’ morbosa, e un uomo francese che entrava e usciva dalla sua vita come fosse un padre, un familiare.
Non ha avuto difficoltà a lavorare su un testo non suo?
Mi piace innamorarmi delle sceneggiature di altri, non ho l’ambizione di scrivere per forza il film, ma posso anche solo dirigere una bella storia purché sia nelle mie corde, come è accaduto con Ma la Spagna non era cattolica?
Un’opera, quella vista qui al festival di Lecce, sulla ricerca d’amore?
Soprattutto sull’incomunicabilità. I personaggi di Julien, Silvia, Rosaria non comunicano tra loro, ognuno vive a senso unico. Alice fa i conti con questa eredità per andare avanti, deve scoprire che cosa è successo della sua famiglia. Dopo 13 anni di buio, si ritrova infatti in quella casa, lasciatale dalla nonna materna, piena di ricordi, suggestioni e fantasmi. Nel contempo è una disperata ricerca d’amore, perché abbiamo bisogno degli altri che ci danno chiavi di lettura per la nostra vita. Alice non può fare a meno allora di rivedere Julien che le indica la via maestra.
Perché quegli inserti animati?
Non riesco ad essere troppo drammatico, mi piace raccontare delle storie nelle quali tengo le redini dei momenti drammatici. Ecco spiegate quelle immagini animate. Del resto sono affascinato da film d’animazione fantastici come Valzer con Bashir, Persepolis e Metropia.
Il film parla anche di tossicodipendenza.
Ma è un tema marginale, perché Silvia, la madre, più che una tossicodipendente è un persona border-line, estrema, a cui piace fare tante cose, anche negative. Il suo rapporto con gli altri è malato, diventa amica di un ragazzo e gli concede di prendersi il ruolo del padre, assente, della sua bambina. Ho voluto poi sottolineare l’atteggiamento omofobico della Chiesa cattolica nel nostro Paese, la sua pesante ingerenza nella vita sociale e politica.
Una Cagliari inedita fa da sfondo alla vicenda.
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