Pennac, compleanno Noir a Milano: l’avvenire aleatorio dell’Europa e l’entropia della Ferrari

Lo scrittore francese, nato il 1 dicembre '44 e al Festival per ricevere il Chandler Award 2023, ha aperto il suo viaggio milanese incontrando una platea di studenti universitari dello IULM, ospite di una conversazione introdotta dal rettore Gianni Canova e moderata da Stefano Bartezzaghi


MILANO – Chissà se un uomo che nella vita scrive storie in cui le coincidenze possono essere solo apparentemente tali e diventare magari l’indizio schiacciante – laddove si confermi che il caso non esista – abbia riflettuto sul fatto che proprio nel giorno del suo compleanno corrente, il 79mo (è nato a Casablanca, il 1 dicembre del ’44), riceva un prestigioso Premio per la letteratura di genere, Noir naturalmente, ovvero quella che gli ha dato la gloria, e se questa concomitanza susciti in lui un curioso o inquietante mistero sulla vita.

Lui è Daniel Pennac, ospite d’onore del Noir in Festival 2023, a Milano per ricevere il Raymond Chandler Award di quest’anno, con la cerimonia presso la storica Casa Manzoni, dove per fare gli onori di casa è stato scelto un suo esimio collega che nondimeno sa giocare con gli intrecci thriller e la suspense, Giancarlo De Cataldo.

Però, il primo appuntamento che Pennac fissa e esaudisce a Milano è quello con una platea pubblica di cittadini e di studenti, gli allievi dell’università IULM, dove ad accoglierlo è Gianni Canova, rettore dell’ateneo e delegato del Festival, mentre a intavolare poi una vivace chiacchierata – tra scrittura e stretta attualità – è Stefano Bartezzaghi.

Per Canova, “l’Università è orgogliosa che un festival di cinema si svolga dentro un campus, forse un unicum in Italia: il ‘noir’ è un modo di sentire – come sostengono Giorgio Gosetti e Marina Fabbri, direttori del NIF – in linea con le antenne del nostro presente“. Il Professore, poi, annuncia “uno scrittore forse non immediatamente connesso al genere Noir ma la cui scrittura è piena di echi che la connettono alle vie di questo sentire“.

Il palco dell’Auditorium si anima con l’ascesa di Pennac, introdotto da un sapiente e spassoso Bartezzaghi.

“Grazie, Bartez”, dice Pennac alzandosi dalla poltroncina che lo accomoda, baciando in capo il suo moderatore: “Bartez era un portiere, calvo, a cui alla fine delle partite tutti dicevano: ‘grazie’, quindi grazie Bartez(zaghi)“, spiega Pennac, che poi continua riconoscendo a un suo professore di averlo spinto a scrivere, “è stata una lezione di scrittura e pedagogia. Perché di pedagogia? Perché quella sua proposta era una reazione al fatto che io gli mentissi sempre. Ero veramente, veramente, un pessimo allievo in tutte, tutte le materie, anche se nella realtà leggevo tantissimo! Un cattivo allievo mente sempre perché deve inventarsi spiegazioni improbabili, come la mucca che s’è mangiata i fogli dei compiti; il cattivo allievo può incontrare due tipi di insegnati: il moralizzatore, che ti dice che finirai per diventare ladro, finirai in galera, e questo è il 90% del corpo insegnante; poi c’è un 10% che decide di fare il proprio mestiere, e quel mio professore faceva parte di questo, s’è detto: ‘questo ragazzo ha immaginazione. Come posso usarla per creare un rapporto tra lui e la materia?’; così mi disse: ‘la devi smettere con le tue stronzate, e mi scriverai un romanzo, 10 pagine a settimana per un trimestre, lavorando con un dizionario sempre aperto accanto a te, per controllare tutto’. Avevo 15 anni: sono diventato scrittore, e anche professore, e da 63 anni lavoro sempre con un dizionario aperto al mio fianco!“.

Pennac si rivolge poi direttamente alla platea, in parte di docenti, per una preghiera: “vi supplico, non date un giudizio morale sui difetti dei vostri studenti, cercate di trovare il momento pedagogico che possa approfittare di questo! Aaameeen”.

Puntando il fuoco ora sulla sua letteratura, sarà quella attualmente in libreria l’ultima fermata (letteraria) – come recita il titolo del suo più recente romanzo: Capolinea Malaussène. Il caso Malaussène 2 – per il suo personaggio feticcio, Malaussène? La saga sulle pagine di carta è cominciata quasi 40 anni fa (era il 1985 e il primo titolo fu Il paradiso degli orchi), così hanno preso il via le vicende del suo Benjamin.

Bartezzaghi, a questo punto, entra nel merito del “capro espiatorio”, tale è Malaussène; e per Pennac: “tutto è nato dopo aver letto Il capro espiatorio di René Girard, che spiega il concetto; sono rimasto fulminato dall’idea antropologica! Ho scritto a Girad: gli ho detto che la sua idea fosse geniale, di enorme chiarezza, una verità universale e quindi avevo voglia di scrivere una serie su un capro espiatorio professionista, cioè uno che prende uno stipendio per farsi sgridare al posto degli altri. Dopo un pranzo insieme, in cui ha riso molto, mi ha dato l’autorizzazione a farlo”.

Prendendo come spunto l’arco di sviluppo della saga, fino all’ultimo romanzo, Bartezzaghi nota che a volte “l’idea di essere vittima, nella società contemporanea, sembra vincente“. Pennac si fa serio e risponde quasi sillabando, per far sedimentare la sua riflessione: “la società mercantile in cui viviamo s’è sviluppata a tal punto che ogni membro vive se stesso a partire da ciò che consuma, ‘ognuno è il proprio cellulare’, e non è una lezione di morale; il cellulare – o comunque la Rete – si è sviluppato fino a diventare una macchina individualista destinata a ‘capro-espiare’; il cellulare è un luogo mentale della propria convinzione personale, ma il singolo individuo pensa sia una convinzione collettiva. È un po’ un paradosso. Questo stato delle cose ha delle conseguenze immediate nel mondo politico: la prima è di disinteressarci delle elezioni, nei Paesi democratici”.

Pennac continua il discorso sentendo a questo punto il bisogno di alzarsi in piedi, qualche istante almeno, e continua spiegando che “questa prima conseguenza è molto spiccata in Francia; la seconda è veder istallarsi nei posti di potere delle pure individualità, come Trump, una specie di caricatura dell’ individualismo assoluto, con un seguito di elettori spinti dall’essere essi stessi solo se stessi, questo è vero anche per Bolsonaro o per il nuovo Presidente argentino; si tratta di tirannie individualistiche, che sono la fine della società mercantile iniziale. Tutto ciò fa sì che l’avvenire dell’Europa diventi aleatorio. Pensiamo agli USA: con Obama hanno eletto Batman, quattro anni dopo hanno eletto Joker, e questo perché si è perso il senso della collettività“.

Bartezzaghi torna adesso su Malaussène, ricordando il luogo della vicenda: “Belleville: l’idea di un quartiere con una convivenza multietnica, problematica e allegra, qualcosa che all’inizio faceva impressione; così come la famiglia che si racconta, non verticale ma più simile a un cespuglio, con gli individui a pari diritto. C’è una forza profetica di osservazione, sagaci ingredienti: pane quotidiano della Sociologia a venire “. Per lo scrittore: “Belleville – dove io stesso vivo dal ’69 – rappresenta tutti i ‘Sud’ del mondo: è la Storia ridotta a un fazzoletto di terra; per me era il quartiere ideale perché vario, si parlano tantissime lingue e si venerano gli dei più impensabili. La famiglia Malaussène è di tipo elettivo: in fondo con mia moglie, in 40 anni, abbiamo costruito questo tipo di cosa, non avendo figli, ma essendo ‘adottati’ e ‘adottanti’; per esempio, ne fa parte Jasmina Melaouah (la storica traduttrice dei suoi libri), la mamma italiana di Benjamin, senza cui non esisterei; e così dico grazie anche a Stefano Benni, che mi ha portato in Italia”.

Bartezzaghi a questo punto entra nel cuore pulsante della creazione letteraria e chiede: “come funziona la tua creatività?”. Pennac non ha dubbi: “è il miracolo laico dell’incarnazione e vi faccio un esempio: avevo un fratello, deceduto, che amavo tantissimo, e che mi manca molto; un giorno, in autostrada, mi supera una Ferrari, a 200 all’ora, simbolo dell’ idiozia più totale, esattamente il contrario di lui; da lì, il mio interesse per Melville, per cui ho voluto scrivere un libro su mio fratello, Mio fratello appunto, ma forse, se non fosse accaduto quell’episodio, non l’avrei scritto”.

Con il piglio di un attore, Pennac si alza di nuovo in piedi e riempie il palco, commentando che: “è una questione di possesso: io cerco di immaginare cosa significhi possedere un veicolo come quello che mi aveva superato, un veicolo simbolico; quindi, sempre rispetto a mio fratello, quando sono stato superato, ho ricordato che lui dicesse: ‘non aggiungiamo cose all’entropia’, e la Ferrari – o macchine simili – aggiungono entropia”.

Bartezzaghi conclude l’avvincente chiacchierata con una riflessione sul mestiere dello scrittore, chiedendo infine a Pennac quale sia il suo rapporto con la lingua, in cui lui “si tuffa”. Lo scrittore, sornione e sempre sul pezzo, risponde: “Bartez… inizialmente raccontavo Malaussène e man mano si strutturava la vicenda ma non avendo la necessità di sapere per forza come andasse a finire, la scrittura stessa si è fatta lingua“.

Pennac, infine, chiude e sfama la platea con un racconto che sembra un pezzo di teatro, in cui “mette in scena”, a due voci, un dialogo “realistico” tra lui e Vladimir Nabokov, raccontando che “quando ero bambino, viveva accanto a noi: lui era un eccellente cacciatore di farfalle, io no; ma lui concluse che forse un giorno sarei diventato uno scrittore popolare ma sarebbe potuto accadere solo se avessi conosciuto l’autore di tutti i romanzi … ma … Vladimir, io, in realtà non l’ho mai conosciuto!”.

 

 

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