Ci voleva lo sguardo di una mamma australiana, per di più esordiente, per portare al Festival un modello di adolescente positivo come non se ne vedevano da un po’. Del resto il trend della gioventù allo sbando è ormai di moda da un pezzo, fomentato e alimentato da atti di bullismo, episodi di cronaca nera e voglia di trasgredire. Ne è riprova Un gioco da ragazze, primo lungometraggio di Matteo Rovere atteso al Festival, in cui le protagoniste, tre diciassettenni ricche, cattive e viziate, manipolano la gente. Un film destinato a far discutere che arriverà nelle sale con il divieto ai minori di 18 anni. Tutt’altra atmosfera si respira invece in Playing for Charlie film passato già con successo ai Festival di Sydney e Melbourne. Opera prima di Pene Patrick, artista sulla quarantina arrivata a Roma per presentare il suo film ad Alice nella città insieme alla sua produttrice, Franziska Wagenfeld, la pellicola è incentrata sul rapporto tra madre e figlio, “un legame secondo la regista dove coraggio e fiducia non dovrebbero mancare mai”.
Lei esordisce dietro la macchina da presa in età adulta. Esigenze tecniche, artistiche o economiche?
Tutte queste cose insieme anche se in fasi differenti della mia vita. Da ragazza partii alla volta degli Usa per studiare recitazione, poi durante le lezioni di Uta Hagen all’HB Studio ho capito che quello che volevo davvero era stare dietro alla cinepresa, non davanti. Ci sono voluti 14 anni però per tramutare quel sogno in realtà. Nel frattempo ho girato un corto e sono diventata un’autodidatta della regia. Solo per scrivere e girare Playing for Charlie sono passati 7 anni.
Una genesi lunga per un primo lungometraggio.
Lo script ha richiesto due anni circa, ma i problemi grossi li ho avuti con la parte finanziaria. Gli esordienti hanno molta difficoltà. Alla fine, fortunatamente, mi sono imbattuta in quelli della Queen Ant Films, un gruppo di artisti che non pensano in prima battuta al profitto, ma anzi investono una parte dei loro capitali a fondo perduto sui progetti di sconosciuti come me.
Nel film il protagonista Todd è un sedicenne costretto dagli eventi a crescere più in fretta dei suoi coetanei, tanto da dover rinunciare ai suoi sogni per prendersi cura della madre malata e del fratellino di pochi mesi. L’ispirazione è partita da un evento autobiografico, o si è rifatta a qualcosa o qualcuno che conosce?
No, è stato un evento casuale. Un giorno guidavo vicino ad una cava. Pioveva e c’erano due ragazzi che giocavano a calcio. Le loro facce, le loro espressioni, mi hanno ricordato la caparbietà e il desiderio di fare tipico di quell’età. L’idea che puoi davvero fare tutto perché hai una fede e una speranza incrollabili. Questo è il pensiero che ha ispirato il film.
Come si collega questa scena ai personaggi della pellicola?
Mi sono detta che questi lati positivi sono mostrati sempre di meno nel cinema oggi e che era tempo di ribaltare la situazione. Basta con questi ritratti di teenager drogati, violenti e che si muovono in gang. Basta anche con i figli di papà che delinquono per noia, il mio Todd è un ragazzo di un’altra pasta.
Sarebbe a dire?
Un giovane uomo che fin da piccolo sa cosa è giusto e cosa non lo è. Ora però dovrà capire che se davvero vuole aiutare la sua famiglia deve lasciare anche che gli altri sbaglino e che siano in grado di trovare il coraggio di farlo.
Sembra più il modo di agire di un genitore che di un figlio?
Playing for Charlie è un lavoro che dimostra proprio come all’interno di una famiglia spesso i ruoli si scambino e intreccino tra loro. Personalmente lo ritengo un processo utile e costruttivo per tutti. Mamme e papà dovrebbero avere più fiducia nella saggezza dei ragazzini anziché riempirli di paure e divieti. E’ una cosa che ho imparato per prima io, grazie al mio bambino.
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