Pelican Blood, maternità da incubo

Esplora il tema della genitorialità difficile ​la pellicola di Katrin Gebbe che apre Orizzonti. Il film è una commistione di generi e passa dal dramma, al thriller psicologico, all’horror


VENEZIA –  Esplora il tema della genitorialità difficile, o meglio da incubo, Pelican Blood di Katrin Gebbe, coproduzione Germania-Bulgaria che apre il concorso di Orizzonti alla Mostra. Il titolo, metafora del sacrificio per amore, si riferisce all’iconografia cristiana del pellicano femmina che nutre la propria prole morta con il suo stesso sangue e la riporta così in vita. Un po’ il percorso della protagonista Wiebk (interpretata da un’eccellente Nina Hoss), madre single che adotta dall’estero Raya, una bambina che col passare del tempo si rivela sempre più aggressiva e violenta, fino a diventare una vera minaccia per sé e per gli altri. La piccola ha subito un trauma infantile che ne ha causato un profondo disturbo emotivo e l’ha resa, per difesa, incapace di provare emozione o empatia nei confronti del mondo. Praticamente, dal punto di vista emotivo è come se fosse morta. Ogni sua reazione è di una violenza incredibile, che esercita in particolare nei confronti dei bambini più piccoli. La sua patologia sembra irrecuperabile, o almeno così viene definita da uno psicologo infantile, ma la madre, da vera donna coraggio, non si arrende e decide di spingersi oltre i propri limiti, di tentare ossessivamente ogni strada. Arriva a prendere decisioni estreme e, pur di proteggere la sua famiglia, è disposta all’irrazionalità più totale, che la porta fino all’abbracciare soluzioni esoteriche. 

Il film è una commistione di generi diversi: con l’avanzare della trama passa dal dramma, al thriller psicologico, fino ad arrivare all’horror. Un evolversi necessario dettato dalla storia stessa secondo la regista, che sottolinea di aver voluto esplorare una versione da incubo della maternità. “La paura che le donne incontrano di fronte ad una bambina come Raya, il timore che famiglia a causa sua vada a pezzi e che lei possa danneggiare gli altri bambini è uno scenario horror. Volevo che il pubblico fino alla fine del film provasse questa emozione e ne fosse coinvolto”.

Pelican Blood si interroga su cosa è disposto a fare una madre per i propri figli e, in generale, fino a che punto l’essere umano è disposto a dare amore e pazienza a qualcuno che non è capace di restituire alcuna forma di affetto. Fino a che punto siamo capaci di stare al fianco di un familiare o anche di un partner borderline che potrebbe non essere mai guarito? Quanto siamo disposti a cedere per integrare nella società chi non si comporta secondo i nostri standard morali e comportamentali?

È questo il dilemma esplorato dalla regista anche nel suo film d’esordio Nothing Bad Can Happen, presentato a Cannes (Un Certain Regard), e che in Pelican Blood sottolinea la necessità di aprire i propri orizzonti, fidarsi che la vita, anche quando non è facile, ha qualcosa di più da offrire. Wiebk ha una volontà fortissima di tenere con sé la figlia, e per ottenere ciò che desidera è disposta a tutto. Apre il proprio orizzonte, corre rischi, segue l’istinto e di fatto arriva a girare le spalle alla società e a lasciare dietro di sé tutti i comportamenti normali. Proprio per questo il film è anche critica, in qualche modo, a una società che mostra evidenti limiti nel modo di affrontare le psicopatologie gravi e irrecuperabili, che appare incapace di gestire ciò che non è normalizzabile: “Ci sono istituti e cliniche ma le donne, in situazioni come queste, vengono lasciate sole, non c’è nessuno che le accompagni in questo percorso difficile. C’è qualcosa nella natura delle donne che dona loro una forza enorme, ma spesso non hanno il supporto adeguato ”.

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28 Agosto 2019

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