Pedro Almodóvar: “Il mio horror trans(genico)”


CANNES – “Tranquilli, non sono nazista”. Con Pedro Almodóvar ti puoi finalmente rilassare. Il suo nuovo film La piel que habito, in concorso a Cannes, non è un capolavoro, ma parlarne con lui lo rende più avvincente e interessante. Come se non bastasse al suo fianco c’è Antonio Banderas che torna complice del “suo” regista (lo scoprì con Matador) vent’anni dopo Legami!  “Tornare con Pedro è come tornare alle mie radici, al mio paese con tutte le sue contraddizioni, in una parola a casa. Ed è bello anche lavorare di nuovo con attori come Marisa Paredes, con cui ho fatto dei film che hanno rotto i codici e che oggi sono diventati dei classici e incrociare interpreti nuovi come Elena Anaya, che fanno ben sperare sul futuro del cinema spagnolo”.

 

Nel film, che è un thriller con risvolti quasi horror (una svolta fatta presagire dal precedente Gli abbracci spezzati e preparata per Pedro dal lavoro di produttore di Alex de la Iglesia e Guillermo Del Toro), Banderas è Robert Ledgard, un chirurgo estetico che, dopo la morte dell’amata moglie arsa dentro la sua auto, si dedica allo studio di una pelle artificiale resistente alle ustioni. La sperimenta sul corpo di Vicente, il ragazzo che ha violentato sua figlia e che ora, sotto i suoi ferri, è diventato una donna, Vera, che ha le fattezze delle moglie defunta. Mentre sulla casa prigione dove il medico ha sequestrato la giovane vittima della sua vendetta, controllata notte e giorno con videocamere a circuito chiuso, veglia Marilia (Marisa Paredes), una domestica che si rivelerà ben presto essere sua madre. Come vedete, il tocco Almodóvar non manca. Trama inverosimile e intricata, ambiguità sessuali, passioni proibite, diverse scene di sesso dai toni ironici, vendette e agnizioni. Ma per il regista spagnolo, per la quarta volta in competizione, anche stavolta la Palma, che avrebbe meritato con Volver, sembra poco probabile nonostante gli applausi alla proiezione stampa. Per La piel que habito, che lui stesso ha definito il progetto più difficile della sua carriera, “un horror senza un grido di terrore”, Almodovar si è ispirato al romanzo del francese Thierry Jonquet “Tarantula” (Einaudi). Il film uscirà da noi in autunno con Warner.

Come ha lavorato sul romanzo di Jonquet ?
L’avevo letto in poche ore, è un romanzo adatto a un viaggio in aereo, ben dieci anni fa. In questi dieci anni ho cambiato praticamente tutto, lasciando solo l’aspetto che mi aveva colpito alla prima lettura, ovvero l’enormità della vendetta di questo medico psicopatico che agisce freddamente e senza pietà contro il presunto violentatore della figlia. Tra l’altro il ragazzo, anche se un po’ esaltato, non aveva violentato la ragazza, perché ne era veramente attratto.

Il film mette in scena una strana famiglia: il dottore, la governante e l’altro fratello, che fa la sua comparsa mascherato da Tigre.
È una famiglia feroce, selvaggia e moralmente molto indipendente. Sono di origine brasiliana e hanno avuto un’educazione diversa da noi spagnoli, che siamo impregnati di senso di colpa e peccato. La madre, interpretata da Marisa Paredes, dice di portare la follia nelle sue viscere, ma i suoi due figli sono molto più pazzi di lei. Sono entrambi violenti e amorali: uno, il Tigre, ha scelto la strada, l’altro la scienza che pratica senza scrupoli con la donna come complice ideale.

Come è approdato al thriller?
I miei percorsi, personali e cinematografici, mi hanno portato ad attraversare vari generi, dalla commedia pop al melodramma. Ma il thriller esprime bene il momento attuale con la sua apertura e la possibilità di condividere altri codici. Non siamo più negli anni ’50 e non si possono più rispettare rigidamente tutte le regole. Lavorando a questo progetto, ho visto film del terrore e mi sono soffermato specialmente sugli anni ’40 e su Fritz Lang. Sono stato anche tentato, per un po’, di fare il film alla maniera di Lang e del cinema muto cioè in bianco e nero e senza dialoghi.

Ha rivisto “Occhi senza volto” di Georges Franju, un film del ’59 con Alida Valli, in cui c’era un chirurgo ossessionato dall’idea di ricostruire il volto della figlia, sfigurato in un incidente?
Certo, direi che è l’unico riferimento preciso. Però mentre quello è un fantasy, il mio film è realistico perché la transgenesi è una cosa reale a cui gli scienziati stanno lavorando sul serio, pur nei limiti della bioetica che impedisce gli incroci tra esseri umani e altre specie. A Granada c’è un laboratorio dove si fa la pelle artificiale. Io mi sono solo avvicinato al fantastico e ho evitato il gore.

 

Ha pensato a Frankenstein?
Del collegamento con Frankenstein di Mary Shelley me ne sono reso conto solo a film finito. Ci sono in effetti molti agganci con mitologia greca, con il mito di Prometeo, che è all’origine di Frankenstein, e con quello dei Titani che avevano rubato la luce agli dèi per darla agli uomini. L’elettricità dei tempi di Mary Shelley è stata sostituita dall’ingegneria genetica.

Lo scienziato che crea una nuova realtà è imparentato in qualche modo con il regista che costruisce il suo mondo e lo filma?
Il dottor Ledgard non mi rappresenta, anche se è vero che un regista è molto simile a Dio perché dà forma alle sue fantasie. È il massimo potere a cui io possa accedere e mi piace così. Il medico del film crea una nuova pelle e quindi una nuova identità. Ma è un personaggio estremo, uno psicopatico, non ha nessuno scrupolo, nessuna capacità di mettersi al posto degli altri. Io non sono esattamente così.

 

Lei sembra provare molta simpatia per il personaggio di Victor/ Vera.
Sì, perché la sua è una storia di sopravvivenza in una situazione estrema. Vera, che è prigioniera del dottore, riesce a restare viva attraverso l’arte, creando delle bambole fatte con stracci strappati ai suoi vestiti. Mentre la scienza ci porta verso l’ignoto e potrebbe anche cambiare quello che intendiamo per essere umano, l’arte ci dà piacere e ci accompagna.

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19 Maggio 2011

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