CANNES – Subito ribattezzato “Tutto su mia figlia” per citare uno dei suoi titoli più famosi e universalmente amati (tra l’altro vincitore di un Oscar, l’altro l’ha avuto per Parla con lei), Julieta è il ventesimo film del regista spagnolo, maestro di commedie coloratissime con venature thriller e intensi melodrammi al femminile. In concorso al Festival di Cannes, il film contiene tutti i temi a lui cari e una serie di vicende e intrecci familiari, con malattie, morti per annegamento e rapporti madre figlia interrotti, ma ha un tono più malinconico, meno coinvolgente del solito. Protagonista assoluta è appunto Julieta che incontriamo in due età della vita, venticinquenne piena di voglia di vivere e molto solare (Adriana Ugarte) e cinquantenne carica di rimpianti e sensi di colpa, messa in ginocchio da una serie di disgrazie (Emma Suarez). Per gran parte la narrazione avviene attraverso la voce della Julieta adulta che scrive una lunga lettera a sua figlia Antìa. Non si sono più viste da quando la ragazza, appena ventenne, è andata per tre mesi in un ritiro spirituale in montagna e poi è sparita. Eppure Antìa è figlia di una grande passione, quella per Xoan, conosciuto e amato da Julieta durante un viaggio in treno. Nel film, in sala con Warner dal 26 maggio, anche Rossy de Palma e Dario Grandinetti.
Venti film, dal primo Pepi, Luci, Bom del 1980, sono un traguardo importante. Non avrebbe voluto essere fuori concorso, come i colleghi Woody Allen e Steven Spielberg?
Mi sono reso conto che Julieta era il ventesimo solo alla fine delle riprese e non ha cambiato nulla nel mio modo di lavorare che parte sempre dalle storie. Non ho il talento di Woody Allen o di Spielberg e non mi paragonerei mai a loro. Poi penso che una volta che vieni a Cannes è meglio stare in concorso, un po’ perché aumenta l’interesse dei critici e dei media e rende tutto più eccitante, un po’ perché non mi sento una vacca sacra al di sopra della competizione.
La scelta dei colori è sempre fondamentale nei suoi film, qui abbonda il rosso con quel drappeggio cremisi che apre il film.
Io sono figlio del Technicolor, sono cresciuto con quei colori vibranti, contrastati e accesi, e ho sempre cercato di ritrovare quella sensazione. Sono figlio degli anni ’60, dell’arte pop, dei colori esagerati. Poi c’è un motivo psicologico: mentre giravo Donne sull’orlo di una crisi di nervi ho scoperto che mia madre quando aspettava me era vestita a lutto. Insomma, forse sono una risposta radiosa contro questa tradizione del nero, che di per sé è un colore sofisticato ma diventa una maledizione quando è imposto.
Lei si è ispirato a tre racconti di Alice Munro, dalla raccolta In fuga.
Mi hanno affascinato molto, specialmente uno, e ho cercato di unificarli in un’unica storia visto che avevano una stessa protagonista, Juliet appunto. A un certo punto ho deciso di spostarli in Spagna e adattarli alla cultura spagnola. Così ho dimenticato Alice Munro e sono andato dove mi portavano i personaggi. Non sono stato molto fedele anche se ammiro tantissimo Alice.
Ma cosa l’ha affascinata inizialmente in quei testi?
Le scene del treno. Volevo fare un film sul treno, anche se è risultato essere un inferno perché è un luogo angusto, ma io come un bambino capriccioso mi ero fissato e Alice Munro mi forniva una scena bellissima, ai livelli di Strangers on a train. Abbiamo molte cose in comune, anche lei è una casalinga, come me, e scrive mentre accudisce i bambini che le prendono molto tempo, così cerca ispirazione di notte, crea le storie nella nella sua testa e le trasferisce poi sulla carta. Mi piace anche che quando leggi un suo racconto alla fine hai la sensazione di saperne meno che all’inizio.
Lei continua a indagare l’universo femminile e specialmente la figura materna.
Ho fatto molti film sulla figura della madre, è vero, ma questa madre è la più vulnerabile, la più debole, quella che ha minore capacità di lottare, la sua è una disperata resistenza passiva. Le altre madri sono potenti e sanno lottare in modo sovrumano. Julieta è vittima di perdite irreparabili che la minano come persona, a un certo punto è una specie di zombie che cammina senza speranza.
I titoli di coda sono accompagnati da una stupenda canzone di Chavela Vargas, cantante messicana scomparsa quattro anni fa e sua grande amica.
Quella canzone è sempre stata presente, in un film dove la musica è ridotta al minimo. Le parole di quel brano sono perfette per accompagnare un finale aperto alla speranza anche se non felice.
Come mai ha scelto due attrici diverse per Julieta?
All’inizio pensavo di girare in inglese, nello Stato di New York con un’attrice americana che avevo già scelto. Ma non mi sentivo sicuro. Poi ho deciso di spostare la vicenda in Spagna dove però i vincoli familiari non si rompono mai, sono molto più stretti che in Nordamerica. È stato allora che ho deciso di usare due attrici. Anche Bunuel in Quell’oscuro oggetto del desiderio ha usato due attrici. Adriana Ugarte è la donna degli anni ’80, libera e senza pregiudizi, Emma Suarez è una donna che ha vissuto e ce l’ha nello sguardo. Tra i film che ho detto a Emma di vedere c’è Europa ’51 di Rossellini.
Lei è stato coinvolto nell’inchiesta dei Panama Papers e ha interrotto la promozione in Spagna di Julieta. Ha danneggiato la sua immagine?
Mettiamola così. Se quella storia fosse un film, io e Agustin saremmo due comparse, invece la stampa spagnola ci ha trattato come protagonisti assoluti. E poi è una vicenda su cui ancora si sta indagando. Quindi l’importante è che vi sia piaciuto il film.
Sa che nelle università sudamericane si studia il suo cinema come un genere a se stanta, l’almodrama?
Caetano Veloso mi disse che mi considerava un regista brasiliano. Lo considero un complimento, credo si riferisse alla mia esuberanza. Questo film però è un dramma sobrio e contenuto perché questo mi chiedeva la storia.
Con quale dei suoi personaggi si identifica maggiormente?
Con tutti, nel bene e nel male. Julieta è molto diversa da Los abrazos rotos o La piel que habito, ma tutti i miei film mi rappresentano, sono la mia autobiografia. Io ho proibito di scrivere libri biografici su di me, l’ho messo anche nel testamento e lo chiedo anche a voi. Però la mia vita è in questi venti film. Ma il mio cuore è soprattutto nella Julieta matura, è lei che mi rappresenta di più nella realtà di oggi.
Forse anche perché questo è un film sul passare del tempo?
Non mi sento un vecchio però ci sto vicino. Philip Roth diceva che la vecchiaia non è malattia ma una disgrazia. Non avrei potuto fare questo film se non avessi 66 anni. Non sono nostalgico ma mi manca la gioventù e mi mancano gli anni ’80. Recentemente mi sono dovuto occupare di una cosa noiosa come la mia salute. E’ stato triste.
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