Paul Tana è nato ad Ancona e aveva undici anni quando è sbarcato in Canada con la famiglia, nel 1958. Da allora vive a Montréal. La sua è la generazione di italiani arrivati in Nordamerica tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. E di questo parlano i suoi film. Balzato sulle pagine dei giornali grazie al successo di Caffè Italia (1985) e qualche anno dopo di La Sarrasine (’92), ha all’attivo quattro lungometraggi – il più recente è La deroute (’98), che in italiano suona più o meno come “la disfatta” – e numerosi cortometraggi.
Storicamente è stato il primo tra i registi italocanadesi a ottenere i finanziamenti governativi, messi a disposizione da Telefilm Canada, la più grande istituzione pubblica locale che finanzia il cinema. E i suoi film parlano di italiani, di immigrazione, di difficoltà di integrazione, di linguaggi diversi che in alcuni casi si mescolano e si arricchiscono reciprocamente, in altri diventano armi taglienti che dividono le persone. «Quando sono arrivato in Canada – afferma Tana – mi sentivo perso, diverso dagli altri. L’integrazione è stata difficile. Avevo quasi trent’anni quando sono finalmente riuscito ad accettare la realtà: sono nato in Italia, quindi sono sia italiano che canadese».
Come si colloca all’interno del cinema canadese?
Dentro e fuori. È un sintomo dei limiti e della grandezza di questa società, dove esiste una coscienza dell’immigrazione e agli immigrati viene anche data la parola. I film rientrano in questo contesto “etnico”. Certi film fanno parte del mainstream, rientrano nel territorio simbolico, ma nello stesso tempo si collocano al di fuori. In Canada c’è una nuova dimensione di scoperta e il mio cinema cerca di aprire una finestra su un mondo che ha comuque difficoltà nel farsi accettare.
È stato difficile trovare i finanziamenti per i suoi film?
Certamente non è stato semplice. Ma alla fine Telefilm Canada si è dimostrata molto interessata a questi argomenti. Il processo di finanziamento in Canada è simile a quello degli Stati Uniti, dove esistono delle foundation per sovvenzionare il cinema indipendente, ma anche a quello italiano, dove lo stato finanzia la gran parte dei film e del loro costo.
E come funziona la distribuzione in Canada?
Le cose sono cambiate negli ultimi dieci anni e finalmente la distribuzione è il primo aspetto a cui si pensa una volta finita la sceneggiatura. Spesso però accade che i film prodotti in Quebec, che ha un bacino di utenza di sette milioni di spettatori, non siano distribuiti in Ontario e viceversa. È assurdo. Io spero che i miei film possano circolare in Quebec ma anche in tutto il mondo. Sono contentissimo ora che verranno proiettati in Italia.
Le storie dei suoi film raccontano di emigrati, di integrazione difficile, di italiani in Canada. Oggi si sente canadese?
Mi sento più canadese che italiano, ma non posso aderire al cento per cento a questo paese. A un certo punto è necessario radicarsi nel mondo. Il problema della doppia identità, o dell’identità un po’ sfocata, è al centro delle mie preoccupazioni e di quelle di Bruno Ramirez, il mio sceneggiatore. E di Tony Nardi, che interviene sempre criticamente e in modo salutare nella realizzazione delle scene. È il mio diavoletto. Insieme cerchiamo sempre di raccontare la realtà, cercando di andare al di là del vittimismo. Per aiutarlo a conoscere le proprie radici, tutte le estati porto mio figlio Manuel, che ha tredici anni, in Italia. E lui ora è molto fiero di avere questa “doppia appartenenza”. Una cosa che gli altri non hanno.
Sta preparando un nuovo film?
C’è un nuovo progetto in corso con Telefilm Canada. Speriamo di iniziare a girare il prossimo anno. Il processo è stato rallentato perché ci sono state delle difficoltà con il produttore. Il titolo di lavoro è Zanet, ed è la storia di un personaggio realmente vissuto in Canada, figlio di immigrati, che diventa il poliziotto numero uno della Royal Canadian Montreal Police. Si tratta di un film sull’identità. Il protagonista parla molte lingue e assume diverse personalità. È un po’ come un emigrante, non ha più un territorio suo, appartiene a mondi diversi, vive in un altrove senza radici vere.
Molti autori e artisti americani sono rimasti molto scossi dai fatti dell’11 settembre negli States. Lei pensa che la cultura, l’arte, il cinema, cambieranno?
I fatti di New York hanno cambiato tutto. Negli ultimi venti o trent’anni si è vissuto con uno sguardo ironico sulla vita che a me ha sempre disturbato. Soprattutto non mi piaceva questa percezione del mondo per cui tutto era già stato fatto e detto e non c’era più nulla da inventare. Mi hanno colpito le affermazioni di Roger Rosenblatt su “Time Magazine” che ha scritto che quello che è successo a New York e Washington ha portato alla fine dell’ironia. Adesso è nato un nuovo rapporto con il reale. Non c’è film, né immagine, che abbia mai avuto la potenza di questo evento reale. Una certa innocenza, semplicità, non sono più possibili. E adesso più di prima è importante fare cinema, parlare delle cose fondamentali della vita, con una certa urgenza.
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