Due attori in stato di grazia, Isabelle Huppert e Pascal Greggory, di certo in lizza per la Coppa Volpi, e un film Gabrielle di Patrice Chéreau che oscilla tra Strindberg e Bergman. Un film rigoroso e forte sull’incapacità di amare e di essere amati, sulla passione, nel quale il tradimento, l’infedeltà sono solo il pretesto per scavare a fondo sul rapporto di coppia e la sua crisi. Una vicenda universale, ma qui collocata all’inizio del Novecento, quella di Jean e Gabrielle Hervey un’agiata famiglia borghese, senza figli. Il loro equilibrio, improvvisamente si spezza, in quella glaciale e quasi spettrale residenza dove la servitù si muove silenziosa, testimone del dramma in corso. Gabrielle è una coproduzione Francia e Italia (Mikado e Albachiara).
Quanta modernità c’è in questa storia?
Chéreau. Per il primo quarto d’ora in scena c’è una coppia borghese, ricca, all’inizio ‘900. Poi ci dimentichiamo di quel tempo storico, davanti a noi c’è una coppia dei nostri giorni. Ma il collocare la vicenda universale di una coppia in quell’epoca, per paradosso aiuta la lettura, ci dà l’effetto di una lente d’ingrandimento.
Quanta madame Bovary c’è in questo film?
Chéreau. A differenza di Flaubert questa è la storia di una coppia che ha dimenticato per dieci anni il desiderio, il proprio corpo. Il film mostra il mondo di lui/Jean che crolla, e un altro di lei/Gabrielle che si sveglia e si costruisce nel dolore.
Huppert. Sono il ritratto di due donne della stessa epoca che cercano di avere accesso al desiderio con mezzi diversi. Ma Gabrielle è più lucida, più consapevole di quel che accade.
Ma il centro del film?
Chéreau. Non è il ritratto di una donna che tradisce e di un uomo che è tradito, l’infedeltà non è il tema centrale del resto del racconto “Il ritorno” di Conrad. Tutti siamo infedeli, perciò non è il tema che mi interessava approfondire.
Huppert. Sono temi ricorrenti la frustrazione e la fragilità femminili, così come l’incapacità di amare e di essere amati o la crisi di una coppia. Quel che conta è però come vengono trattati. I due protagonisti avanzano parallelamente nella scoperta di se stessi, c’è la fascinazione di ciascuno per la propria storia, c’è una presa di coscienza. Quel che il film sottolinea è la resistenza, in ognuno di noi, a mettere fine alla coppia, la forza del patto sociale o individuale.
Il film è scandito da dissolvenze, da bruschi passaggi dal colore al bianco e nero. Perché?
Chéreau. Ho cercato di servirmi di soluzioni tecniche e formali che il cinema offre. Così in fase di sceneggiatura da subito ho pensato alla sequenza iniziale in bianco e nero con lui che non smette di parlare e all’improvviso quella bottiglia che si rompe e il passaggio al colore. La scena dello stupro è in bianco e nero non solo per la volgarità dell’episodio, ma per raccontare prendendo le distanze. Perché le didascalie da cinema muto? Grida e urla sono più forti letti che ascoltati, come quell’ultima battuta finale, “Non torno più”.
Quanto la sua esperienza teatrale conta sul set?
Chéreau. Ho passato 20 anni a sentirmi dire “perché ci annoia con il suo cinema”. La gente dice che c’è un rischio di teatralità nei miei film. Ma le mie radici del teatro sono nel modo in cui dirigo gli attori e che ottiene alla fine un risultato cinematografico.
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