Otto minuti di applausi e una standing ovation da commozione in sala Grande alla proiezione di domenica 3 settembre. A conquistarseli è stato Placido Rizzotto, inserito nella sezione Cinema del Presente. E prima dei titoli di coda, altro applauso al nome di Carlo Alberto Dalla Chiesa. L’Italia non ha dimenticato. Sorride soddisfatto, il regista Pasquale Scimeca, abbraccia i suoi attori, ringrazia il pubblico. Il film sarebbe potuto essere inserito in concorso. Ma Scimeca si rifiuta di sollevare polemiche sull’argomento.
Placido Rizzotto era figlio di contadini. Tornato dalla guerra, dove era stato partigiano, divenne segretario della Camera del lavoro al suo paese, Corleone. Si battè contro il feudalesimo della mafia che deteneva il potere sulle terre e si mise alla testa dei contadini per occuparle.
Un altro film dalla parte dei vinti, per Scimeca. “Sono dieci anni – afferma il regista – che lavoro a questo tipo di cinema ambientato in Sicilia. Ho un mio percorso, rosselliniano, che procede alla ricerca di eventi, che racconta la storia degli umili, dei dimenticati”. Dalla Donzelletta – storia di una ragazza che vive il dramma della tossicodipendenza, al di fuori dal mondo, al di là del consumismo, senza genitori, senza nessuno, dove l’eroina sostituisce tutto – passando per il Giorno di San Sebastiano, che narra la rivolta popolare nella Sicilia dell’800, fino ai Giganti di Zabùt, rivolta contro il potere nel dopoguera.
Perché la sua Sicilia è sempre legata alla mafia?
Non può esistere storia della Sicilia senza quella della mafia e dell’antimafia. A me piace approfondire il mondo popolare che è quello che più si è scontrato con il potere mafioso. I contadini si sono sempre voluti affrancare dal feudalesimo dei signori. Lo scontro si è tracciato sul piano economico, con i contadini che volevano la terra rompendo il potere costituito, e su quello culturale. Affermare il desiderio di libertà significava scontrarsi con una cultura di terrore, morte e ossessione. A parte rari casi, come quello di Falcone e Borsellino, lo stato si è sempre schierato dalla parte della mafia.
Lei conosce bene il mondo contadino?
È sempre stato il mio mondo. Sono nato ad Aliminusa, un paese dove c’erano due televisioni e tre macchine, dove capre e maiali giravano per le strade insieme ai bambini. Ho vissuto la mia infanzia all’interno della società contadina, poi sono andato a studiare fuori, ho vissuto a Firenze. Ma il mio mondo mi è rimasto dentro. L’arte, il cinema, parte da dentro se stessi.
Come nasce lo spunto del film?
La preparazione della sceneggiatura si basa su tre livelli. Sono quasi tre anni di lavoro. Il primo livello è storiografico, ossia la ricerca dei documenti, gli atti del processo, i rapporti di Dalla Chiesa (gli interrogatori). Il secondo livello è letterario. Parte dal libro Spreco di Danilo Dolci, edito da Einaudi, che da trent’anni non viene ripubblicato. Un libro di ricerca antropologica che riporta, inalterate, interviste ai protagonisti della vicenda che risalgono agli anni ’60, tra cui al padre di Rizzotto e agli amici. E ancora, A pugni nudi di Dino Paternostro e Le città del mondo di Elio Vittorini. Dalla realtà poetica del dopoguerra di Vittorini ho tratto molti spunti. Altro elemento letterario è la tradizione dei cantastorie, molto vicina al cinema. Infine, ci sono le testimonianze orali che ho raccolto tra le persone che hanno vissuto queste storie. I loro racconti non sono rigorosi, ma intensi.
Scimeca, lei è un solitario, non si riconosce in nessuna scuola, in nessun percorso collettivo, perché?
Preferisco un percorso in solitudine, sia di stile che produttivo. Non mi confronto con nessuno, non ho compagni di strada, sono sempre stato “fuori” per necessità. Non mi ritrovo col cinema commerciale, ma non ho mai trovato nemmeno alcun tipo d’autore che fosse vicino alla mia sensibilità. Spesso fa bene stare soli, la ricerca del consenso è sbagliata, abbassa il livello, dimostra solo il bisogno di essere amati.
Domanda di rito, il cinema italiano si sta risollevando dalla crisi?
Il cinema italiano vive una crisi totale. Nasce come complesso d’inferiorità rispetto ai padri. In secondo luogo, è crisi produttiva e infine d’identità. Se si rifiutano i padri, si perdono capacità e possibilità di reinventarsi qualcosa di nuovo.
Come si potrebbe superare questa impasse?
Prima di tutto bisogna guardare dentro se stessi e capire i motivi. Io non ho mai avuto questo problema, proprio perché sono stato sempre al di fuori delle logiche. Ho avuto la fortuna di poter fare ricerca. Ho elaborato una mia poetica. Non mi confronto né con gli altri né col pubblico. E ho avuto la libertà di trovarmi una strada.
Adesso, su che strada intende procedere?
Con questo film ho chiuso il ciclo dei vinti. Mi è servito per crescere, formarmi un mio stile, che mi sarà utile per andare avanti. Il prossimo è ambientato nel ‘500. Ed è ugualmente di grande attualità. Affronta le basi della più grande crisi dell’Occidente, la nascita del razzismo e dell’antisemitismo. Nasce con la Santa Inquisizione e l’editto di espulsione degli ebrei dalla Spagna.
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