Lo scorso week-end è uscito in tre copie a Palermo, Catania e Siracusa. E ha incassato 60 milioni e 255 mila lire secondo i dati Cinetel, più altri 53 milioni circa: la media di incassi per copia più alta d’Italia. È Placido Rizzotto, nuova e felice fatica di Pasquale Scimeca, che ha riscosso applausi e suscitato commozione ovunque, da Venezia al Canada, da Trento a Corleone. Costo del film, 3 miliardi e 343 milioni, di cui 2 miliardi e 900 milioni di finanziamento dello stato (ma un miliardo è stato già restituito tra diritti d’antenna venduti e tasse versate). Dal 27 ottobre il film sarà in sala distribuito dall’Istituto Luce.
Per il regista Pasquale Scimeca grande soddisfazione e un altro film dalla parte dei vinti. “Sono dieci anni che lavoro a questo tipo di cinema ambientato in Sicilia. Ho un mio percorso, rosselliniano, che procede alla ricerca di eventi, che racconta la storia degli umili, dei dimenticati”. Dalla Donzelletta – storia di una ragazza che vive il dramma della tossicodipendenza, al di fuori dal mondo, al di là del consumismo, senza genitori, senza nessuno, dove l’eroina sostituisce tutto – passando per il Giorno di San Sebastiano, che narra la rivolta popolare nella Sicilia dell’800, fino ai Briganti di Zabùt, rivolta contro il potere nel dopoguerra. “Coraggio – afferma Scimeca – e coerenza pagano. Ma io non penso al pubblico, faccio i film che ho voglia di fare e che sente la mia anima”. Prossima avventura, un film europeo sulle prime persecuzioni degli ebrei. Sarà un’epopea corale, girato in Spagna e ambientato nel 1492, quando la regina Isabella emanò un editto per l’espulsione entro tre mesi di tutti gli ebrei dalle terre spagnole.
Un titolo come “Placido Rizzotto” non è esattamente diretto ad attirare il pubblico.
Infatti. E mi sono imposto perché fosse questo. I produttori avrebbero voluto Morte e passione a Corleone. Ma io ho sempre saputo che avrei fatto un film su Placido Rizzotto, un sindacalista di area socialista morto a 33 anni e che non ha una tomba. Incredibile ma vero. Il titolo del film è un modo per offrire un luogo metaforico dove pensare a quest’uomo che non ha un posto dove pregarlo e ricordarlo.
Perché la sua Sicilia è sempre legata alla mafia?
Non esiste storia della Sicilia senza mafia e antimafia. A me piace scandagliare il mondo popolare, che è quello che più si è scontrato con il potere mafioso. I contadini si sono sempre voluti affrancare dal feudalesimo dei signori: lo scontro è avvenuto sul piano economico, con i contadini che volevano la terra rompendo il potere costituito, e su quello culturale. Affermare il desiderio di libertà significava scontrarsi con una cultura di terrore, morte e oppressione. A parte rari casi, come quello di Falcone e Borsellino, lo Stato si è sempre schierato dalla parte della mafia..
Lei sembra conoscere bene il mondo contadino.
È sempre stato il mio mondo. Sono nato ad Aliminusa, un paese dove c’erano due televisioni e tre macchine, dove capre e maiali giravano per le strade insieme ai bambini. Ho vissuto la mia infanzia all’interno della società contadina, poi sono andato a studiare fuori, a Firenze. Ma il mio mondo mi è rimasto dentro. Il film in questo senso è ancora attuale. Magari non in Italia, ma in Brasile è una realtà.
Come nasce il film?
Ci sono voluti quasi tre anni di lavoro e tre livelli: il primo livello è storiografico, ossia la ricerca dei documenti, gli atti del processo, i rapporti di Dalla Chiesa. Il secondo livello è letterario. Parte dal libro Lo scialo di Danilo Dolci, un libro di ricerca antropologica che riporta, inalterate, interviste ai protagonisti della vicenda, tra cui il padre di Placido, fatte negli anni ’60. E ancora, A pugni nudi di Dino Paternostro e Le città del mondo di Elio Vittorini. Altro elemento letterario è la tradizione dei cantastorie, molto vicina al cinema. Infine, ci sono le testimonianze orali che ho raccolto tra le persone che hanno vissuto queste storie. I loro racconti non sono rigorosi, ma intensi.
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