Pappi Corsicato


Quando ha scritto il film, dice, era molto depresso. E non dev’essere andata meglio sul set. Fatto sta che l’amore esce dalla mani di Pappi Corsicato in uno stato pietoso. Bistrattato, confuso, frammentato, chimerico, appunto. Chimera si intitola infatti la nuova fatica dell’ex enfant prodige del cinema vesuviano, che torna nelle sale nove anni dopo l’exploit di Libera e sei anni dopo il premiato Buchi neri.
Ispirato dall’attrice-musa Iaia Forte, che sperimenta qui una recitazione raggelata e antinaturalistica, Corsicato ha affidato questa storia di illusione (e disillusione), surrealismo e incomunicabilità alle cure di Tommaso Ragno, Tomas Arana (reduce dal sel del Gladiatore), Marit Nissen, Fabio Sartor e Cristina Donadio. Nelle sale italiane dal 6 aprile, Chimera è ancora una volta un film molto autoriale, con il regista anche scenografo, costumista e sceneggiatore.

Un film che è quasi una messa da requiem per l’amore: è così?
Non bisogna pensare all’amore come a qualcosa che abbia un’unica forma, anzi. In questo senso la mia visione dell’amore, che pure è confusionale, crede nella possibilità del rilancio, dell’invenzione, del poter vedere nell’altro qualcosa da riscoprire. L’amore si alimenta di immaginazione, sempre, e io ho cercato di indagare tutto questo.

Quanta autobiografia c’è?
E’ autobiografico lo stato di confusione, l’incertezza che mi prende a volte nel capire se ho una relazione per stare con una persona o per desiderio dell’amore stesso. L’amore non è mai concreto e la narrazione del film rispecchia proprio l’andamento non lineare dell’amore.

Citazioni anni Settanta, citazioni di genere (dal mélo al noir, dal fotoromanzo alla nouvelle vague): un film molto formale…
Ho dato molta importanza alla messinscena, anche nell’idea di due personaggi che sanno di recitare una loro finzione amorosa mentre recitano nel film. Volevo sottolineare l’artificiosità del fare cinema e della storia. Ma la chiave di lettura del film non è tanto la narrazione. Ogni scena è importante per il significato simbolico, per ciò che rappresenta nello stato d’animo dei protagonisti – una richiesta, una suggestione, un rilancio – più che nella sequenzialità della storia.

Sei anni dall’ultimo film: una pausa di riflessione?
Non si è trattato né di crisi né di crociere. Mi ero dedicato a un altro film, Sesso e violenza che avevo scritto già ai tempi di Libera, ma quando l’ho ripreso in mano ho capito che non mi apparteneva più. E invece per questo film ho perso un po’ di tempo inseguendo un produttore troppo evasivo. Alla fine me lo sono prodotto da poco.

L’accusano spesso di essere accentratore. Questa volta ha chiamato dei collaboratori (Cotroneo alla scrittura, Melodia ai costumi, Romano alle scenografie) ma è pur sempre un film molto “suo”.
Accentrare è un’esigenza che nasce durante la fase di scrittura. La musica, per esempio, viene ancor prima della storia. E mentre scrivo ho bisogno di visualizzare dei luoghi, di sentire certe atmosfere, per avere idee. Poi magari lo script è di 15 pagine… Ivan Cotroneo è intervenuto in un secondo momento per aiutare il testo con suggerimenti letterari e spaziali.

Negli anni Settanta c’era un gran parlare nella coppia, magari per decidere di disintegrarla insieme. I suoi personaggi, invece, nonostante l’ambientazione parlano senza dialogare mai: non crede nella comunicazione a due?
Confermo che non si tratta di un film anni Settanta, infatti. Oggi c’è un maggior pudore, o forse sarebbe meglio chiamarlo moralismo. Si preferisce troncare una storia, piuttosto che vivisezionarla, e anch’io sono convinto che parlare non serve veramente a molto.

autore
02 Aprile 2001

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