“Non far che i tuoi divengano preda del folle che spezza l’eterno poter…”: una frase musicale dagli “Arredi festivi” del “Nabucco” di Giuseppe Verdi che Caterina, la piccola protagonista di Caterina va in città di Paolo Virzì (in sala da venerdì 24 ottobre in 150 copie grazie a 01 Distribution), ascolta a tutto volume con il walkman portatile. Caterina, la brava Alice Teghil, nel buio della sua stanzetta socchiude gli occhi, dirige l’orchestra e balla sfruttando le molle del letto: l‘amore per la musica classica e il canto, come un mantra, la proteggono e le permettono di mantenere viva quella sua naturale innocenza a dispetto del groviglio di livore che agita, consumandola, l’anima del padre (Sergio Castellitto). Gabriele Iacovoni, questo il suo nome, è un professore di ragioneria con velleità da scrittore che, trasferitosi a Roma insieme a sua moglie, la casalinga Agata, e sua figlia Caterina, verrà sbeffeggiato proprio da quell’élite intellettuale e del potere capitolina che lui è andato a scomodare per ottenere favori e attenzioni. Nel cast di questo film dall’eco felliniana, prodotto da Riccardo Tozzi per Cattleya e Carlo Macchitella per Rai Cinema con 4 milioni di € circa, molti volti noti del cinema italiano (Margherita Buy, Sergio Castellitto, Flavio Bucci, Galatea Ranzi, Pasquale Anselmo, Claudio Amendola) ma anche molte personalità pubbliche nel ruolo di se stesse (Michele Placido, Roberto Benigni, Maurizio Costanzo, Giovanna Melandri, Simonetta Martone, Andrea Pancani).
“Caterina va in città” non è una commedia ma un viaggio nel mondo farsesco e tragico delle “conventicole” del potere capitolino.
Lo spunto per la storia, su cui io e Francesco Bruni abbiamo lavorato, inizialmente ci era sembrato molto buffo ma è vero che alla fine si è rivelato penoso. Gabriele Iacovoni, un personaggio che noi amiamo e detestiamo allo stesso tempo, sembra custodire un risentimento morboso, misterioso, patologico e sinistro. L’atteggiamento del padre, che usa la figlia per entrare nei salotti del potere, è diseducativo, imbarazzante e invadente. Abbiamo il sospetto che Caterina in città si sia trasformato in un affresco di tanti ritratti dell’Italia di oggi. Scherzando dicevamo che Caterina è la metafora di questo Paese.
La televisione è un elemento centrale. Interviene nel destino di Gabriele Iacovoni più volte e lo cambia…
Volendo fare un ritratto della piccola borghesia italiana non potevamo non portare sulla scena anche il piccolo schermo. La tv svolge un doppio ruolo: da un lato vediamo che i compaesani di Gabriele, quando vengono a sapere che parteciperà al “Maurizio Costanzo Show” lo guardano quasi con soggezione; da un altro lato vediamo come in televisione si svolga una messa in scena volgare delle rimostranze di Iacovone. D’altra parte Gabriele riceve proprio l’ultimo sberleffo da Simonetta Martone che, mentre conduce un programma televisivo, dice degli scritti di Gabriele: “Non vogliamo entrare nel merito della qualità letteraria..”.
Federico Fellini, a partire dal titolo che echeggia il vecchio progetto di “Moraldo va in città” fino alle scenografie e alcune scene nella villa che sanno di citazioni de “La dolce vita”, vigila sul suo “Caterina va in città”…
Ho voluto omaggiare Fellini ma il paragone con lui è ingombrante. Il “terzogenito” della festa in villa de La dolce vita è risbucato nel nostro film vestendo i panni del piccolo Gianfilippo. C’è lo stesso piedone di marmo del film di Fellini ma per il resto ci siamo limitati ad accendere un cero votivo al Maestro.
“Caterina” è comunque un quadro ilare e feroce sulla società attuale.
L’anima nera e inquietante di Iacovone è portatrice di un’infelicità collettiva che appartiene in particolare alle metropoli. Nella dialettica tra il risentimento degli esclusi e l’èlite sotto i riflettori, abbiamo cercato di raccontare una fetta della società dei nostri tempi.
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