CANNES – This must be the place è il titolo di una canzone dei Talking Heads e David Byrne è un’icona nel nuovo film di Paolo Sorrentino, applaudito a Cannes. Compare in una lunga sequenza in cui il protagonista, Cheyenne, alza finalmente la voce per spiegare i suoi tormenti e i suoi fallimenti. Ex star della scena musicale post punk, Cheyenne ha smesso di suonare, tormentato anche dal suicidio di due fans. Vivacchia, in un limbo di depressione strisciante, passa le sue giornate senza fare molto, tra la villa pazzesca che possiede fuori Dublino, tutta inventata da solerti architetti, dove gioca alla pelota in una piscina vuota con la moglie che fa il pompiere, ama il tai chi e non si scandalizza per le sue stranezze. Ha una grande amica, una ragazza (Eve Hewson, figlia di Bono Vox) che condivide i suoi pomeriggi con lui in un centro commerciale. Ha un altro amico che è stato lasciato dalla compagna perché colleziona avventure nonostante sia bruttino e non troppo intelligente (ma il segreto, con le donne, è il tempo).
Film pieno zeppo di frasi memorabili e di omaggi musicali: dal look estremo di Sean Penn che riecheggia quello di Robert Smith dei Cure al cameo del song-writer Bonnie Prince Billy. Un film molto cinefilo: Harry Dean Stanton rimanda a Wim Wenders (Paris Texas è uno dei riferimenti della parte americana che è una dichiarazione d’amore per l’on the road, l’altro è A straight story di David Lynch), mentre Frances McDormand è quasi un ringraziamento per i Coen, che impregnano tutto il cinema di Sorrentino e che gli hanno mandato parole di sincero apprezzamento.
Per il regista napoletano, alla sua quarta volta a Cannes, This must be the place – costato 28 mln di dollari – è “il romanzo di formazione di un uomo rimasto bambino fino a 50 anni” ed esprime “la curiosità ossessiva per i nascondigli degli ex criminali nazisti, la passione per la musica e l’amore per l’America e il viaggio”. L’uomo-bambino, quasi un Candide dei nostri tempi, è Sean Penn, regista impegnato, icona del cinema americano contemporaneo, sex symbol che pare si sia appena fidanzato con Scarlett Johansson (ma lui smentisce: “un segreto è un segreto”, dice), due premi Oscar per Mystic River e Milk. I due si sono conosciuti a Cannes nel 2008 quando Penn era presidente della giuria e Sorrentino vinse il Grand Prix con Il Divo. “Gli ho mandato il copione pensando che avrei dovuto aspettare mesi per avere una risposta. C’è una leggenda secondo cui ne riceve 40 al mese. Invece 24 ore dopo ho trovato un suo messaggio sulla segreteria telefonica. Pensavo che fosse uno scherzo del mio produttore Nicola Giuliano, ma era proprio lui. Il copione gli era piaciuto, era preoccupato soltanto di una scena in cui avrebbe dovuto ballare. Gli ho detto che era un problema risolvibile”.
Nel film, scritto con Umberto Contarello, Cheyenne lascia gli ozi di Dublino e parte alla ricerca del vecchio nazista che ha tormentato suo padre durante la prigionia nel lager, viaggiando nell’America profonda (è bellissima la parentesi a casa della nipote del tedesco, una madre single che ospita Cheyenne per un paio di giorni). Insomma, l’Olocausto è una presenza lacerante, che mette alla prova quest’eterno fanciullo profondamente buono. “È sproporzionato dire che ho fatto un film sull’Olocausto, perché This Must Be the Place è ambientato ai giorni nostri e affonda comunque le mani in quell’immane tragedia solo per squarci, per timide intuizioni. Ma la Shoah è stata proprio il punto di partenza della scrittura: ho cercato un’angolazione diversa e spero inedita. E’ una tragedia enorme e incomprensibile e perciò qualsiasi racconto su di essa ha una sua ragion d’essere, porta un contributo alla memoria e ragionare su questa degenerazione del comportamento umano”.
In realtà il film si concentra soprattutto sul rapporto tra padre e figlio, rapporto assente, ma vagheggiato.
Come padre vorrei pensare che sia naturale amare i propri figli, anche se tante vicende di abbandono sembrerebbero provare il contrario. Come figlio ho già detto più volte che questo film è molto personale.
Ci sono elementi in comune tra Cheyenne e l’Andreotti del “Divo”?
Non credo che ci siano similitudini possibili, a parte la loro eccezionalità, il fatto che sono personaggi totalmente atipici. Ma non irreali, non credo che siano caricature, sono reali o quantomeno possibili. Ci sono rock star che si avvicinano molto al modo di essere di Cheyenne. Robert Smith l’ho visto da vicino, nel backstage di un suo concerto a Roma, mi ha fatto l’impressione di un uomo di mezza età con un look da adolescente. Uno stridore che lo rende patetico nel senso positivo del termine.
Sean Penn ha accettato di mascherarsi in questo modo con notevole coraggio.
E in più ha dato al personaggio la sua camminata e la voce flebile. E’ un attore magnifico, mi ricorda Toni Servillo, anche lui attore e regista. Entrambi si fidano completamente e sono coraggiosi. Con entrambi ho costruito ruoli che, sbagliando di poco la misura, diventavano macchiette.
Non fa paura raccontare ancora una volta l’America al cinema e specie per un europeo?
L’America è il luogo cinematografico per eccellenza. Per me, che non c’ero mai andato prima dei sopralluoghi, resta un paese complesso e misterioso, su cui non ho risposte ma solo domande. Del resto avere delle risposte sarebbe davvero presuntuoso. Ho conservato l’eccitazione di un bambino che va alla scoperta di un mondo.
Sente questo film come una consacrazione?
Fare This Must Be the Place è stato come ricominciare, come fare un primo film. Un’esperienza unica che mi ha portato oltre la noia, perché anche in questo mestiere ci può essere la noia. Poi, da quando ho scritto il mio primo romanzo, sono molto più tranquillo, so che, mal che vada, potrò sempre fare lo scrittore. Ho ambizioni molto minori.
Ha avuto dei condizionamenti lavorando con tanti produttori, con un grande budget, con una grande star?
No. Quando ci sono molti partner nessuno ha il potere assoluto e Medusa mi ha sempre assicurato grande libertà. Poi c’era anche l’ostacolo della lingua, all’inizio parlavo pochissimo l’inglese e così, anche se mi facevano tante domande, io rispondevo a monosillabi.
Come sono visti in America i registi europei?
Da un po’ di anni sono molto richiesti, gli americani sono interessati agli autori europei.
Com’è andata con David Byrne?
Avevamo scritto quella scena per lui, ma ero preoccupato che potesse dirmi di no, non essendo un attore. Invece è stato facile convincerlo a recitare e anche a fare le musiche. Io avevo bisogno di una serie di canzoni che sembrassero composte da ragazzi di 18 anni e lui si è divertito molto ad affrontare questa sfida.
Aveva in mente “Paris Texas” di Wenders?
Se mi ha influenzato è stato senza rendermene conto. Quel film non lo vedo da tanti anni, ma può essere una delle tante cose che restano impigliate nella memoria.
Una spiegazione della Shoah può essere nascosta nella frase che dice il padrone dell’armeria: se ti danno il permesso di uccidere, uccidi.
E’ vero, e anche nell’idea che i nazisti si imitassero l’uno con l’altro. Una cosa che ho letto il un libro dell’architetto Albert Speer, che i gerarchi cercavano di avere una casa uguale a quella del proprio superiore. E anche nel senso dell’umiliazione, che tra tutte le cose non belle è una delle più dolorose. Ci si dimentica dei torti, delle offese, non delle umiliazioni. Ma la Shoah è un evento talmente enorme e incomprensibile che non si può spiegare.
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